Quando la canzone diventa arte

È recentemente uscito il nuovo, entusiasmante lavoro di Michele Salvemini, in arte Caparezza
/ 30.10.2017
di Zeno Gabaglio

Il modello di cultura che ci trasciniamo dietro da poco più di un paio di secoli ci dice – in buona sostanza – che artista è colui che interpreta se stesso e il mondo che lo circonda, dandone rappresentazioni tangibili (ancorché potenzialmente soggettive, dialettiche, unilaterali ma pure universali) in manufatti oggettuali o ideali sempre nuovi per forma e poetica. Perché sempre nuova è la persona dell’artista e sempre nuovo è il mondo che lo circonda.

L’originalità non è quindi un criterio necessario nel valutare la bellezza, ma lo è per riconoscere l’arte e la cultura.
Se si pensa al mondo della canzone – della canzonetta, qualcuno avrebbe relativizzato fino a pochi anni fa – ogni tentativo di riconoscimento culturale non può quindi che partire da qui, cioè dalla ricerca di un meccanismo ermeneutico e bilaterale tra uomo e mondo. Così come del suo svolgimento progressivo e non ripetitivo nel corso del tempo.

Nell’ambito del mainstream italiano ci sono attualmente – e soprattutto da quando Franco Battiato sembra essersi ritirato in una fase più meditativa che produttiva – due musicisti perfettamente al centro di quella misteriosa dinamica che porta la canzone a diventar arte: Vinicio Capossela e Caparezza. E questo al netto degli inevitabili scivoloni che si può trovare a compiere chiunque sia professionista nel pop.

Capossela e Caparezza, due autori e interpreti (l’inscindibile compenetrazione di entrambi i ruoli un tempo la si sarebbe chiamata cantautorato) che hanno dei ritmi produttivi più umani e organici di tanti loro colleghi – prosaicamente: fanno passare diverso tempo tra un disco e l’altro – ma che a ogni nuova opera spostano sempre un po’ oltre quelli che erano i confini conosciuti: del genere, dello stile, della loro poetica, dell’integrazione tra musica e società.

Prova ne è Prisoner 709, il recente disco di Caparezza. Dietro a un titolo apparentemente criptico – con una forte valenza numerologica ma anche un diretto rimando alla condizione psicofisica di reclusione patita nel 2015 dopo il manifestarsi dell’acufene, persistente e incurabile disturbo dell’udito – si cela in realtà un puro disco di rap, come in Italia non se ne sentivano da un po’. Tanto per cominciare c’è un motivo, un’evidente ragione che porta un autore a creare: se nei dischi passati i temi attraversati da Caparezza abbracciavano l’estetico e il sociale qui si tratta di intimità, di uno sguardo introspettivo che riporta dubbi e tentennamenti di un’esistenza contemporanea, fortemente consapevole ma intrinsecamente debole. E poi c’è anche il modo: se il rapporto tra parola e musica è da sempre stato spinoso rovello di dotti e teorici delle arti, Michele Salvemini da Molfetta (cioè Caparezza all’anagrafe) ha scandito con ogni nuovo disco ulteriori incarnazioni di tale creatura polimorfa. Certo, lontano anni luce da quanto avrebbero potuto pensare Monteverdi o Rousseau; ma se oggi ci si chiede come la parola possa creare ritmo e come la musica riesca a legarsi al senso verbale, ecco Prisoner 709.

E poi c’è ancora l’intelligenza che trasuda da ogni scelta verbale, senza farsi pedante e pure riuscendo a collegare mondi e livelli altrimenti irriducibilmente distanti. Come nell’assonanza Mia Wallace / Maria Callas contenuta in Forever Jung, titolo che è perfetta crasi di cultura alta e pop anni 80.

Al netto dei gusti soggettivi – che con l’idea di cultura fortunatamente nulla hanno a che vedere – si può qui parlare di riuscita, forse anche di miracolo. Quei miracoli che accadono quando i creatori riescono a diventare artisti, perché il tarlo ce l’hanno dentro: «Io vorrei che ogni album avesse un senso, non penso mai “questa canzone la canteranno oppure no”, ma solo “rispecchia quello che ho in testa?”».