«Sono nata negli Urali, a Ekaterinberg; entrambi i miei genitori erano musicisti, mamma pianista e papà compositore; in casa si suonava, ma l’amore per il violoncello sbocciò quando mi portarono a un recital di Natalia Gutman: avevo tre anni e mezzo, rimasi incantata e annunciai ai miei: voglio quello! Mi comprarono un “baby cello”, a casa abbiamo un video di me, piccolissima, che mi presento con una corona di carta, agghindata con tutti i gioielli (di plastica ovviamente…) che avevo tra i giocattoli, la voce di papà che annuncia “Ed ecco a voi la vincitrice di tutti i concorsi mondiali… Anastasia Kobekina” e io che mi profondo in un lungo inchino, almeno mezzo minuto, beandomi di scroscianti applausi immaginari».
Non ha trionfato nei più importanti concorsi internazionali; alla ventottenne violoncellista russa è bastato un terzo posto al concorso Ciajkovskij nel 2019 per calamitare le attenzioni di pubblico, critica e impresari; il resto l’hanno fatto il talento e una personalità vivace e schietta, esibita non solo sul palco, mentre abbraccia l’amato strumento («Avevo quindici anni, poco prima di Natale mi chiamò Spivakov e mi disse che aveva un regalo per me: un violoncello meraviglioso, che ha cambiato tanto il mio modo di suonare. Ce l’ho ancora: è la relazione più stabile e duratura nella mia vita…»), ma anche quando comunica la bellezza della musica, soprattutto ai giovani e ai giovanissimi. «Penso che suonare per i bambini sia una vera e propria missione: a cinque, otto, dieci anni sono già pronti per vivere l’esperienza di un ascolto; sono sicura che rimanga e attecchisca nella loro memoria, e da grandi andranno ai concerti. Se venissero mossi anche solo tre-quattro bambini sui trenta-quaranta presenti in una stanza, beh, sarebbe valsa la pena suonare per loro».
Una prospettiva che ritrova esplicitata nella tradizione classica: «Studiando i trattati degli studiosi e i metodi dei musicisti di metà Settecento, si trova spesso indicato che l’aspetto principale da curare è il “muovere il pubblico”: devi ispirare sentimenti; credo sia l’unico modo perché la musica sopravviva attraverso i secoli». A quei decenni risalgono i due Concerto per violoncello di Haydn, gli unici dedicati a questo strumento da una delle glorie del classicismo; né Mozart né Beethoven scrissero un concerto solistico per lo strumento di Kobekina, ma le due perle di Haydn hanno attraversato gloriosamente e gioiosamente i secoli proprio perché capaci di «muovere il pubblico» e «ispirare sentimenti». Due capolavori, il primo dei quali viene interpretato da Kobekina questa settimana al LAC, accompagnata dall’Orchestra della Svizzera Italiana e da Charles Dutoit, che dirigerà i professori dell’Osi anche nella suite de Il borghese gentiluomo di Richard Strauss e nella seconda sinfonia per archi e tromba di Honegger.
Come tanti suoi colleghi, l’artista russa rimarca come «non sia facile la vita del concertista: quando si porta in tournée un progetto cameristico si condividono treni e aeri, hotel e ristoranti, ma quando si suona con un’orchestra ci si ritrova a viaggiare, mangiare, passeggiare nelle città completamente da soli. Cambia la percezione del tempo e delle cose attorno a me, e questo non è un fattore negativo». La solitudine è stata sua compagna già quando era una studentessa: «Frequentai una masterclass tanto selettiva quanto formativa a Kronberg: eravamo stati ammessi in diciotto, ma quasi nessuno risiedeva in città, così mi ritrovavo spesso sola; fu dura, ma i progressi più significativi non avvengono mai rimanendo in una comfort zone». Comfort zone è un concetto che lei non riesce neppure a concepire nel suo percorso artistico: «Nonostante ormai abbia tenuto tanti concerti, la tensione non passa mai perché per me salire sul palco è sempre una sfida: ogni volta bisogna ricercare, creare una connessione col pubblico, e questa connessione non è mai scontata, dovuta, ovvia: può esserci in programma un brano meraviglioso, ma tocca all’interprete farne vibrare la bellezza nell’animo di chi ascolta. Per come vivo io il momento del concerto, è necessario sentire una sorta di scintilla che scatta, quasi una tensione che crea energia in sala; la gente, più ancora che capire la musica, deve rendersi conto che sta sentendo la musica. Attenzione: questo non è un livello più superficiale, anche se lo può sembrare: spesso l’emozione, il sentimento, è più radicale e intimo di un pensiero analitico, storico, intellettualmente chiaro e strutturato». Quando accade, il concerto rientra per Kobekina nella categoria «Momenti magici»: «Nella vita è semplice riconoscerli, perché se tieni gli occhi bene aperti capisci che stai vivendo un’esperienza che ti corrisponde totalmente; momenti in cui non sei distratta dai pensieri sul passato o sul futuro – sono i pensieri che occupano con maggior frequenza la nostra mente – ma vivi totalmente il presente e lo godi, perché la realtà è bella».