Per quanto possa apparire come perlopiù sconosciuto al grande pubblico europeo – almeno, a quello che non sia particolarmente attratto da certa musica americana cosiddetta indie, sovente ignorata dalle stazioni radiofoniche commerciali – quello del californiano Chuck Prophet è un nome in netta ascesa nell’ambito del cosiddetto country rock, o, più precisamente, alternative country; un mondo che l’artista frequenta dal lontano 1990, quando, dopo la militanza nella rock band Green on Red, Prophet (oggi anche songwriter di successo per nomi del calibro di Bruce Springsteen e Solomon Burke) si imbarcò in una carriera solista di cui questo nuovo Bobby Fuller Died For Your Sins, appena giunto nei negozi, costituisce l’ultimo capitolo. Il titolo dell’album, di primo acchito abbastanza singolare, costituisce un amaro quanto ironico omaggio al talentuoso e sfortunato cantante rock statunitense Bobby Fuller (1942-1966), il quale, dopo una breve quanto sfolgorante carriera, andò incontro ad atroce e misteriosa morte in circostanze mai chiarite: una vicenda che sembra, in effetti, modellata sull’abituale immaginario narrativo di Prophet, il quale, lungo l’intera tracklist del CD, narra vicende che attraversano i più svariati registri, passando dal surreale al tragicomico, fino a toccare accenti sognanti e malinconici.
In effetti, questo disco dimostra una volta di più come Chuck rappresenti un curioso e quasi inclassificabile amalgama stilistico: nonostante, al primo impatto, appaia come un musicista country-rock dallo stile piuttosto tradizionale, è infatti dotato di uno spirito ironico e caustico, che per molti versi ricorda, seppure in chiave minore, la geniale vena sarcastica del suo compianto collega Warren Zevon: lo dimostrano appieno tracce quali Jesus Was a Social Drinker e Post-War Cinematic Dead Man Blues, in cui le liriche irriverenti e surreali sono accompagnate da coretti à la Beach Boys e indiavolati assoli di Fender. Così, sebbene il suo tocco non si possa forse definire come particolarmente originale o inconfondibile, Prophet dimostra grande abilità nell’arte del mélange di differenti generi: fermamente radicato nella tradizione musicale americana, eppure aperto alle contaminazioni, il musicista condisce gli arrangiamenti dei suoi brani non soltanto con riferimenti al cantautorato anglofono degli ultimi trent’anni, ma anche con sfumature rock’n’roll anni 60 o dal gusto vagamente hippie.
Oggi, il nuovo lavoro si distingue innanzitutto per l’estrema godibilità e orecchiabilità: in questo senso, uno dei pezzi vincenti è senz’altro il semplice e irresistibile Bad Year For Rock’n’Roll, scanzonata ma agrodolce riflessione sull’ecatombe di musicisti illustri che ha caratterizzato il 2016 – un brano che, seppur contraddistinto da un incipit pressoché identico a quello di un classico del primo Bob Dylan, è sicuramente destinato a divenire un tormentone per i fan di Prophet.
Sulla stessa linea troviamo anche la title track, Bobby Fuller Died For Your Sins, che, pur non presentandosi come un pezzo particolarmente degno di nota, mantiene un carattere assai accattivante e, al pari di diversi altri brani dell’album, richiama piuttosto da vicino il rock spensierato ma potente di band come Tom Petty e i suoi Heartbreakers. Si cambia invece (letteralmente) musica con Your Skin, un rock-blues elettrico nervoso e appuntito, che peraltro ricorda non poco alcuni classici del genere, così come accade anche con Killing Machine, collocabile sulla medesima linea.
Meno interessante, purtroppo, la rabbiosa cavalcata rock Alex Nieto, la quale, nonostante il tema delicato (la tragica vicenda del ventottenne di origine messicana ucciso senza motivo apparente dalla polizia di San Francisco nel 2014), non riesce ad elevarsi sopra il rango di abituale pezzo rock di medio livello – cosa che accade anche con il similare The Mausoleum. Tuttavia, il CD dimostra che Chuck ci sa fare anche con i brani di stampo più tradizionalmente soft e simil-romantico: benché non presenti una linea melodica particolarmente audace, Open Up Your Heart è infatti una ballata gradevolissima e perfino toccante, mentre il sognante e rarefatto We Got Up and Played costituisce decisamente uno dei brani più affascinanti del disco.
Ecco quindi che dall’ascolto di quest’album emerge, ancora una volta, il ritratto di un ottimo, onesto professionista, immune da pretese di genialità o immortalità artistica e in grado di muoversi con invidiabile grazia e serietà sulla scena musicale, snocciolando dischi dalla qualità garantita. E si potrebbe dire che nel panorama rock odierno – in cui qualsiasi ragazzino imberbe si autopromuove al rango di genio dopo un debutto di successo – i performer provvisti di questo genere di onestà artistica siano da considerarsi merce alquanto rara: un motivo in più per apprezzare e far tesoro della produzione di un autore come Chuck Prophet, e augurarsi che altri giovani rocker possano presto seguire le sue orme con altrettanta integrità.