I margini e il dettato di Elena Ferrante per le edizioni e/o raccoglie quattro testi inediti della scrittrice napoletana, di cui ancora non si conosce la reale identità. Si tratta di tre lezioni che ha tenuto per la cittadinanza di Bologna, in occasione delle «Umberto Eco Lectures» e di un breve saggio composto per la chiusura del convegno Dante e altri classici, tenutosi quest’anno, per la celebrazione del settecentenario della morte del poeta.
Gli estimatori e le estimatrici di Ferrante non rimarranno delusi leggendo questi testi che, pur dimostrando una profonda conoscenza della storia della letteratura occidentale e quindi una cultura ampia e raffinata, non diventano mai difficili, non perdono mai di vista il lettore e la lettrice. Ferrante prende le mosse da un’esperienza condivisa in molti paesi di questo lato del mondo e trasversale a diversi approcci scolastici: la presenza delle righe e dei margini nei quaderni con cui si impara a scrivere, la necessità di instradare da subito questa abilità, tanto scontata quanto divina, di tracciare segni che poi diventano senso, entro dei limiti spaziali ben definiti.
I margini, ricorda Ferrante riportando una foto del suo quaderno delle elementari, erano infatti di colore rosso, per indicare l’infrazione che avrebbe comportato oltrepassarli. Nella prima lezione, quindi, intitolata La pena e la penna, l’autrice si concentra sulla dicotomia tra una scrittura instradata, piana, che scorre entro le righe e i margini imposti e quella che, invece, impetuosa, arriva incontrollata: «irrompe dopo pagine e pagine e avanza strafottente senza stancarsi, senza soffermarsi, non badando nemmeno alla punteggiatura, forte solo del suo stesso impeto. Poi di colpo mi lascia. Ho scritto per buona parte della mia vita pagine lente solo nella speranza che fossero preliminari e che arrivasse presto il momento di quello scatto inarrestabile».
Questa ambivalenza, tra uno stile accettabile, che permette di scrivere romanzi leggibili, anche ammirabili e una scrittura che invece prende possesso non solo della pagina, ma anche della personalità di chi scrive, ritorna nella terza lezione intitolata Storie, io, in cui Ferrante stabilisce una differenza tra «gli scrivani» e chi invece crea delle opere di letteratura imperdibili. La scrittrice mette in guardia, però, rispetto all’idea che, anche per le grandi autrici e i grandi autori, sia possibile comporre testi nuovi: rifacendosi, infatti, a un concetto caro alla critica letteraria del ’900, Ferrante ribadisce come non si possano possedere le parole, che esistono prima di ogni testo e lo supereranno.
In I margini e il dettato troviamo poi il racconto di come sia nata l’idea della relazione tra Lenù e Lila, su cui si fonda la quadrilogia de L’amica geniale, di cui le due donne sono protagoniste. Ferrante racconta di avere avuto un momento di difficoltà, di vero e proprio blocco, dopo la scrittura de La figlia oscura, che chiude il trittico di romanzi composto inoltre da L’amore molesto e I giorni dell’abbandono. Questi tre testi sono ugualmente incentrati su una donna, che si muove da sola nel mondo, in una condizione di totale isolamento e alienazione.
Il passaggio al racconto della relazione, che connota la quadrilogia, è avvenuto, scrive qui Ferrante, grazie alla lettura di un caposaldo del femminismo italiano: Non credere di avere dei diritti (Rosenberg & Sellier, 1987). Si tratta di un testo che raccoglie le esperienze del ritorno a scuola di donne che, grazie al femminismo, decidono di prendere la licenza media. Sono per lo più casalinghe, madri, mogli. A ispirare Ferrante è la coppia di amiche Emilia e Amalia, di cui aveva già scritto la filosofa Adriana Cavarero: Emilia ha una storia di vita molto intensa, di cui parla spesso, per questo Amalia decide di scriverla per lei e di donargliela.
Da questo rapporto di amicizia fondato sulla condivisione di una storia e di un’unica scrittura, Ferrante ha tratto ispirazione per raccontare di come Lenù cerchi per anni di riprodurre la bellezza e la forza della scrittura di Lila, che da parte sua la istiga a procedere negli studi, che lei ha dovuto abbandonare. Scopriamo, inoltre, che il titolo della quadrilogia le è stato ispirato da Autobiografia di Alice Toklas e dall’audacia di Gertrude Stein, che non esita in questo romanzo ad autodefinirsi un genio.
Il testo su Dante, che conclude il volume, mostra, nonostante la complessità della materia, la stessa chiarezza che caratterizza le parti precedenti: una semplicità che sembra dettata prima di tutto dall’amore per i testi, di cui Ferrante parla e che costituiscono i suoi punti di riferimento come scrittrice. In particolare, nella sua analisi dei cambiamenti di Beatrice, da La vita nova a La commedia ritroviamo il gusto e l’attenzione di una studentessa, quella stessa meraviglia.