Sebbene non molti tra i fan più affezionati siano disposti ad ammetterlo, è innegabile come l’attuale influenza artistica dei Radiohead – l’eccitante rock band «alternativa» a lungo considerata l’esperimento musicale forse più intrigante offerto dalla scena inglese degli anni 90 – sia andata progressivamente riducendosi a misura che il gruppo cominciava a mostrare segni di stanchezza dovuti alla ripetitività del suo pur particolarissimo sound. Forse anche per questo, da oltre un decennio il frontman Thom Yorke ha inaugurato una carriera solista parallela alla produzione via via più scarna del gruppo; carriera alla quale ha appena aggiunto un nuovo capitolo, anche stavolta registrato senza l’ausilio di una vera band d’accompagnamento, ma semplicemente immergendosi al cento per cento nel sound offerto dai campionamenti, sintetizzatori, loop ed effetti digitali tipici della musica elettronica nella sua accezione più attuale e moderna, caratterizzata da ritmi ossessivi e ripetitivi e dall’assenza quasi totale di melodie riconoscibili.
Questo nuovissimo Anima ripropone infatti il medesimo percorso seguito da ogni precedente lavoro solista di Thom, a partire dal debutto The Eraser, dato alle stampe nel 2006, durante un periodo di pausa dall’attività con i Radiohead; la differenza sta nel fatto che, secondo un’abitudine ora in voga tra molti rocker, l’album è accompagnato da un omonimo cortometraggio, diretto da Paul Thomas Anderson e proposto dall’immancabile Netflix. Del resto, Yorke sembra aver deciso di riservare la propria carriera solista a esperimenti elettronici dagli esiti in verità piuttosto sicuri e tranquillamente ripetibili, senza voler indulgere in troppe possibili sorprese nella linea stilistica o emozionale dei suoi dischi; e questo nuovo Anima si presenta come un album di durata breve – un lavoro che, in virtù della propria natura cinematografica, va, per così dire, «dritto al punto», avvolgendo fin dal primo istante l’ascoltatore in atmosfere e suggestioni ipnotiche e, in fondo, quasi asettiche nella loro scarna sobrietà digitale.
Lo si avverte fin dal brano di apertura, il cadenzato Traffic, quasi una sorta di «stream of consciousness’»in cui la voce di Thom fa da contrappunto alle ritmate inflessioni di una linea melodica volutamente incerta, che in alcuni punti riporta alla mente alcuni recenti exploit dei geniali Muse; sulla medesima scia, altri brani mostrano un legame ancor più labile tra il cantato di Yorke e la base musicale, in una pigrizia che purtroppo sfiora l’inerzia (come in Impossible Knots). Nel contempo, i campionamenti da dj anni 90 su cui sono basati pezzi quali Twist e Not the News giungono ormai fuori tempo massimo, recando con loro un forte sapore di dejà-vu, al punto da risultare alla lunga quasi irritanti; va un po’ meglio con I Am a Very Rude Person, principalmente grazie agli abituali cori eterei nei quali Thom si produce in sottofondo, e lo stesso si può dire di The Axe, brano che di fatto si avvicina non poco ai più recenti lavori dei Radiohead, gradualmente sempre meno improntati sulla forma canzone classica (si veda A Moon Shaped Pool, del 2016).
Il fatto è che la cosiddetta «musica elettronica» rappresenta, in realtà, un ambito molto delicato, specialmente in un’epoca in cui il genere è quantomeno inflazionato; oggi, questa branca del pop-rock spazia infatti dal tipo di scelta operata da quegli artisti che indulgono in ballate musicate secondo sonorità, appunto, elettroniche (come i talentuosi The National o gruppi più stagionati quali i Depeche Mode), per arrivare agli esperimenti di stile veri e propri, spesso piuttosto estremi e derivati direttamente dal progressive rock dei seventies o dal synth-pop più d’assalto; e come l’ultimo ventennio ha dimostrato, poche imprese possono definirsi complesse e disperate quanto il concepimento di un disco di musica elettronica che non risulti noioso o perfino alienante nelle sue continue ripetizioni di frasi e ritmi spesso esclusivamente sincopati, soprattutto laddove la cosiddetta «electronica» viene spesso confusa con la disco o la dance più dozzinali, come accade anche alle nostre latitudini.
Così, spesso appare lontana l’epoca in cui l’ossessività del sound raggiungeva picchi di assoluta finezza tematica e originalità narrativa con gruppi del calibro dei teutonici Kraftwerk; e proprio questo «ristagno» resta, al momento, il vero problema di Yorke, tuttora incapace di distaccarsi dal segno distintivo della sua produzione con i Radiohead, quel cantato quasi surreale, strascicato e lamentoso, ormai divenuto manierismo. E poiché simili espedienti di forma non possono comunque sostituire la vera «sostanza» di un lavoro di songwriting, l’indiscutibile professionalità di Yorke non basta a smentire l’impressione che l’artista di Anima sia ormai invischiato in una sorta di pigra presunzione creativa, a lungo andare inevitabilmente destinata a nuocere alla sua credibilità.