Poeta curioso che giocava con le idee

Con Hans Magnus Enzensberger se n’è andato un altro grande della letteratura
/ 05.12.2022
di Luigi Forte

Era rimasto quasi solo lui di quella favolosa schiera di scrittori e intellettuali che negli anni del dopoguerra aveva ridato un volto e un’anima alla letteratura tedesca dopo la tragedia del nazismo. Hans Magnus Enzensberger, scomparso nei giorni scorsi a novantatré anni, maestro del paradosso e dell’ironia, era da decenni una figura simbolo come altri di quella generazione attorno al Gruppo 47, da Günter Grass a Heinrich Böll, da Uwe Johnson a Martin Walser, che aveva ancora, come si disse, «l’innocenza del divenire». Convivevano in lui aspetti diversi: il poeta e il critico, il romanziere e il giornalista, il traduttore e il drammaturgo sempre proiettati verso la realtà sociale e politica di un paese alla ricerca di riscatto e di una nuova identità.

Era nato a Kaufbeuren in Baviera nel 1929 e aveva studiato filosofia e letteratura laureandosi nel 1955 sulla poetica del romantico Clemens Brentano. Già due anni dopo pubblicava il suo primo libro di poesie, La difesa dei lupi, in cui il virtuosismo linguistico lasciava trapelare una precisa poetica del dissenso: contro i lirismi logori e le encicliche dell’umanesimo a cui contrapponeva il vigile e accorto intelletto e gli orientamenti della ragione seguendo il vecchio maestro Brecht. E nelle numerose raccolte successive fino a Wirrwarr (Caos) del 2020, Enzensberger diede vita a una particolare mistura di triviale e sublime, a un gioco di sguardi rivolti alla cronaca e alle apocalissi quotidiane che riprese nei canti dell’epos Il naufragio del Titanic del 1978, un’ampia sinfonia del tramonto di un secolo proiettato sul progresso e le sue aberrazioni.In tale prospettiva si muovevano già i personaggi ritratti nelle ballate di Mausoleum del 1975: pionieri, inventori, utopisti che volevano racchiudere la realtà nella perfezione assoluta di un modello. Il libro metteva in vetrina ossessioni e deliri della ragione strumentale con una glossa: «Lo spirito del mondo non c’è, noi non conosciamo le leggi della storia...».

Eppure lo scrittore s’impegnò a fondo per individuarne le dinamiche, a cui non si sottrasse pur fra molte contraddizioni, ben orientato dalla dialettica dell’illuminismo di Adorno e della scuola di Francoforte. Con la rivista «Kursbuch», fondata nel 1965, organo intellettuale dell’opposizione extraparlamentare, egli divenne un punto di riferimento per il movimento studentesco del Sessantotto, con un preciso compito: inquietare e distruggere certezze. Teorizzò la rinuncia alla poesia, che, a suo parere, aveva perso ogni funzione sociale nell’epoca tardo-capitalistica, salvo poi ricredersi in anni futuri. Ma lo scrittore-ideologo guardava ora altrove: l’entusiasmo per Fidel Castro e Che Guevara lo portò per un anno all’Avana, dove riteneva si fosse realizzata la vera utopia sociale. Dovette ricredersi e non tardò a cambiare opinione anche sul movimento studentesco così come fu uno dei pochi intellettuali che difesero la guerra in Iraq paragonando Saddam Hussein a Hitler. Era consapevole di apparire controverso, ma proprio questa era la sua qualità, come emerge anche dagli stimolanti scritti del volume Zickzack del 1997: non perseguire un pensiero lineare per gettare luce sugli imperscrutabili rapporti sociali. La sua stessa prosa saggistica non mirava, secondo l’insegnamento di Montaigne, a descrivere l’essere, ma piuttosto un processo, un divenire. Gli si rimproverava talvolta l’eccessiva retorica antifascista o lo sguardo intransigente verso il proprio paese. Ne era consapevole, ma non disposto a venir meno alla sua vocazione polemica che non esitò a rivolgere verso i media come strumenti essenziali dell’industria della coscienza. Ma seppe fare anche i conti con sé stesso all’insegna dell’ironia, come nell’affettuosa retrospettiva del 2011, I miei flop preferiti, dove passava in rassegna in decenni di attività i progetti falliti, che a suo parere, avevano un effetto terapeutico: possono mitigare la perdita di controllo e la mania di grandezza.

Difficile dire che cosa colpisca di più nella sterminata bibliografia del poeta Enzensberger, che nel tempo si rivelò un artista curioso ed eclettico: se le raccolte di saggi su temi assai diversi, dalla politica all’antropologia e alle scienze, o i testi teatrali e i romanzi come Breve estate dell’anarchia o Hammerstein e Josephine ed io, o piuttosto gli originali libri per ragazzi come Il mago dei numeri «dedicato a chi ha paura della matematica», una splendida fiaba dove il narratore veste fantasiosamente i panni dello scienziato. Il giovane protagonista, Roberto, intraprende poi viaggi straordinari nel tempo e nello spazio in Ma dove sono finito?, mentre in Esterhazy un coniglietto aristocratico su consiglio dello zio principe si reca a Berlino e là incontra Mimi e vivono felici e contenti a ridosso del Muro finché non cade e la città appare inospitale e chissà mai se si potrà dare un senso all’unità ritrovata.

Anche nelle sue favole Enzensberger non smentiva la propria vocazione: incalzare la realtà giocando con le idee e una buona dose di fantasiosa ironia.