Una stagione all’inferno e Papà respiro addio: così s’intitolavano gli spettacoli con cui Ferdinando Bruni, nel 1990 e nel ’97, volle rendere omaggio a due poeti che gli erano particolarmente cari: Arthur Rimbaud e Allen Ginsberg: il primo, un fuoriclasse; il secondo, un autore significativo ma non di prima grandezza. Ora è la volta di Una serie di stravaganti vicende, «un omaggio a Edgar Allan Poe» come recita il sottotitolo «scritto, diretto e illustrato da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia» (Bruni è anche l’interprete). Rimbaud, Ginsberg, Poe: tre scrittori che in diversa misura hanno avuto fama di «artisti maledetti»: la qual cosa significa, fra l’altro, che l’interesse del comune lettore per le loro opere è inscindibilmente connesso con il fascino esercitato dalle loro biografie (anche se Ginsberg, morto a settant’anni, ha avuto il tempo di smorzare il suo urlo beat, diventare una venerata icona hippy, essere nominato Chevalier des Arts et des Lettres). Quanto al «maledettismo» di Poe (l’uomo e l’artista), condivido ciò che ha scritto Leslie Fiedler in Amore e morte nel romanzo americano (1960).
«[…] le figure che Poe creò nella sua opera non furono mai convincenti al pari di quella costituita dalla sua vita. […] Manca a Poe, come scrittore, il senso del peccato, e perciò egli non può elevare i suoi personaggi al livello faustiano, il solo che possa conferire dignità al genere macabro. […] Poe non ci dà se non ciò che Wallace Stevens chiamerebbe una Esthétique du Mal. Se pare che la sua vita stessa faccia provare un brivido più genuinamente metafisico, questo non si deve a lui, ma alla coscienza puritana di Grinswold [suo esecutore letterario e velenoso detrattore], che ne ha fatto una specie di Faust a buon mercato per gli americani, proprio come Baudelaire [che lo dipinse come “una vittima dell’America e un secondo Cristo, la cui croce era l’alcol”] ne fece un poète maudit per i francesi».
Circa un anno fa, lo spettacolo di Bruni e Frongia venne preannunciato col titolo Finché esista il sole della mia ragione: una citazione da Berenice, che sembrava alludere al proposito di focalizzare la liaison dangereuse (così Gesualdo Bufalino ha definito il rapporto Baudelaire-Poe) fra lo scrittore americano e i suoi protagonisti maschili – in gran parte anonimi, psicotici o psicopatici – che raccontano di sé in prima persona. Il nuovo titolo, Una serie di stravaganti vicende – che riferito ai racconti di Poe pare frutto di un eccessivo understatement (è forse anch’esso una citazione?) – suona più «oggettivo», e sembra dichiarare l’intenzione di rendere manifesta – trascurando la figura dell’autore – la compiutezza e l’autosufficienza dei suoi racconti e dei suoi personaggi. Un’intenzione realizzata?
Diversamente snelliti, nello spettacolo sono presenti Eleonora e Il cuore rivelatore, nonché l’incontro-scontro finale di William Wilson (nome fittizio) col proprio sosia-antagonista: episodio difficilmente comprensibile per chi non conosca l’intero racconto, la cui tensione drammatica deriva dal rinnovarsi degli incontri in località diverse. Esili storie in versi si possono considerare anche le ballate Annabel Lee e Ulalume, nonché la celebre poesia Il corvo, che Bruni e Frongia hanno frammentato, facendone una sorta di tema ricorrente all’interno di un copione che allinea testi in prima persona, pronunciati da più personaggi maschili, senza nome e di imprecisabile aspetto, che sembrano camuffamenti di un unico personaggio, coincidente col loro allucinato creatore.
Al centro dell’apparato scenografico low budget c’è una lunga cassapanca coperta da un telo scuro, che fa pensare a una bara e sulla quale, all’inizio, indossando uno spolverino luttuoso e con due grandi ali nere aperte, Ferdinando Bruni, a piedi scalzi, bofonchia cavernosamente, in lingua originale, la prima strofa del Corvo. Perderà abbastanza presto le ali e metterà piede a terra per proseguire il suo one-man-show, visibile attraverso dei veli trasparenti su cui viene proiettato un video con immagini disegnate in bianco, grigio e nero, che fanno pensare a cieli percorsi da nuvole in fuga, lande brumose e desolate, tetre magioni secolari. A un certo punto, come balzata fuori dalla lugubre cassapanca, appare un’orrorosa figura femminile, nera e scheletrita, che evoca la defunta moglie di Poe e le ossessionanti giovani donne morte che si ritrovano in diverse opere dello scrittore americano.
Effetti poco sorprendenti. Sorprendente, e per me incomprensibile, è invece il fatto che per buona parte dello spettacolo la scrittura di Poe, già costellata di locuzioni interiettive e di iperboli, sia smodatamente enfatizzata dalla recitazione in sopratono, ringhiosa e digrignante (vorrei dire «incazzata»), di Ferdinando Bruni – microfonato come al solito – e dalle sottolineature musicali di Theo Teardo.
Dove e quando Milano, Teatro Elfo Puccini, fino al 21 maggio.
https://www.elfo.org/media/photogalleries/unaseriedistravagantivicende/20162017/elfopuccini.html