Per fare davvero un punto sulla poesia di Alberto Bertoni, non si può prescindere dal libro Poesie 1980-2014 (pp. 195, euro 12) uscito per l’editore Aragno qualche tempo fa e che ora rileggendolo, passato il momento fluido ed enigmatico di ogni uscita, si va fissando in una precisa fisionomia estetico-contenutistica, che molto dice sulla formazione intellettuale dell’autore.
Poesie formalmente è una auto-antologia poiché lo stesso Bertoni ne ha selezionato i testi ma al tempo, se si osserva bene, il libro ha una sua identità rispetto alle precedenti raccolte, proprio perché non è una mera giustapposizione di materiali, ma selezione attenta degli stessi e loro riposizionamento, si dice in nota: «…secondo un ordine ricreato per questa occasione, dunque non strettamente cronologico, nei singoli capitoli, mentre cronologica rimane la sequenza dei capitoli»; non sono altresì contenute le poesie più volte rieditate negli anni di Ricordi di Alzheimer perché non suddivisibili in parti e quindi non antologizzabili. E nel volume è chiara la traccia a una fedeltà poetico-narrativa che non verrà mai meno, dai primi versi di Lettere stagionali (1996), agli ultimi di Traversate (2014) a visioni illuminate e circonfuse dal solo dato d’esperienza da cui tutto sembra derivare, così lontane quindi dalle inutili astrazioni figurative di tanta scrittura contemporanea.
E allora dovremmo chiederci: poesia come destino? E perché il vissuto, di cui tutti gli scrittori appunto vorrebbero cibarsi per poter creare, vira su un individuo anziché su un altro? Possiamo certamente accostare questa riflessione all’uomo Alberto Bertoni, il quale non ha fatto altro per decenni che rispondere ai battiti dell’esistenza, alle sue varie accensioni, reimmettendola sempre con talento nella pagina del binario poetico: «Quel quarto d’ora prima del caffè / e della lezione su Sereni / il quarto d’ora tutto scatti e freni / che chiude in zona Fiera ogni spiraglio / […] / questo quarto d’ora lo trascrivo / dal portico dove il tuo nome / pronuncio al telefono per primo». E il libro ci dice molte cose sull’idea di narrazione per frammenti che dentro vi si va costruendo, ecco difatti esondare tra le pagine anche la passione per la lettura come elemento di fisiologica sopravvivenza, di là delle didattiche, dei magisteri; affiora in molti versi, dove sembra risuonino i grandi del Novecento letterario e poetico quali Saba, Montale, Sereni, Giudici, Gadda.
In punta di penna dunque, Bertoni ci fa intendere quanto importante sia la traditio, intesa come passaggio di testimonianza artistica tra generazioni, che certamente tiene su di sé assonanze, echi ma non rinuncia altresì ad assumere, se portata responsabilmente nella traversata dei tempi, nuove significazioni tutte da decifrare: «Non avevamo studiato nessun segno / per riconoscerci, non era necessario / così, al tuo fischio, mi giro e / – Ciao, Mario, com’è / che solo adesso ti fai vivo? / …».
E tornando al dato d’esperienza, il suono-tono di Bertoni non è mai solipsistico ma comunitario, si affacciano appunto nella pagina e subito in Lettere stagionali, è chiaro, visi per lo più anonimi, taluni sì conosciuti da cerchie più ampie di persone ma tutti efficacemente parificati nella pagina, in una istantanea vitale e irriducibile del proprio esserci; parificati equamente nella forza enigmatica di un detto, un tic, una gestualità.
A capo d’ogni poesia ecco affiorare un mese, un nome, un luogo, e una M con triplo asterisco, invenzione del grande poeta Delfini, a indicare Modena. Nella folta genealogia di conosciuti e sconosciuti, sfilano quindi i nomi di Pier Vittorio Tondelli, Claudio Lolli, Edmondo Berselli ma anche di tal Corradini Vittorio: «… // Parlava roco / e soprattutto poco/il labbro inferiore appena sporto, / … / a raccontare se stesso come uomo / di due guerre, un armistizio / e subito il caos, la catastrofe, il fuoco».
E certo l’ulteriore fulcro di questo libro-antologia, è quello del dolore senza scampo patito da alcune figure fondative per la vita dell’autore: la madre ad esempio, condannata da una malattia degenerativa, ma questo trauma-dolore così aperto, dice nel verso sempre oltre il suo mero consistere; si colora magari della tinta tetra del disfacimento organico, ma anche di quella azzurrognola-metafisica affiorante nella sensorialità olfattiva e visiva che gira in certi luoghi-stanze del vissuto.
Ecco allora che remote relazioni, riconquistano un nuovo spazio di azione e comprensione per il lettore stesso: «Ma com’è, a mezzanotte passata / cogliere un lampo, / vedere le sorelle Barbolini / far decollare tutti i mobili di casa / … / il tavolo sembrare un’astronave // E poi le piante, la marea di tavolini / ricomposte nell’ordine perfetto /… // Tu lì fermo, circospetto / a presidiare l’angolo segreto / fai l’infermo, inerme, inetto / suscitando il disprezzo / corale, unisonante, tedesco / della sorelle Barbolini / …».
E così anche Stefano Tassinari scrittore ferrarese deceduto nel 2011, nel capitolo a lui dedicato ed intitolato Via Crucis è come se tornasse con l’autore a quel dialogo interrotto prematuramente. Ecco nei versi i due amici rimisurarsi in una rinnovata dimensione parallela alla precedente, nell’unico campo di battaglia autentico e degno per ogni donna e uomo: l’amicizia: «Durano poco / sono fatte di cera scadente / le candele della cattedrale / russo-ortodossa di Parigi / Aleksandr Nevskij, il Santo Generale / che nel film di Ejzenštein per esaltare Lenin / è il tuo ritratto uguale // Così te ne accendo una / e ti ripenso, / osservandola il pochissimo che dura / goccia su goccia si consuma / …».
Alberto Bertoni ha sicuramente fatto della sua vita, parafrasando il suo grande maestro, Giovanni Giudici, una vita in versi. Questa fedeltà quasi quarantennale oramai alla poesia, è un evento da non sottovalutare, poiché la vita con le sue tragedie, le tante giravolte infelici, potrebbe allontanarci da essa, ma è chiaro che l’autore ha fatto di questa arte una pellicola sottocutanea alla sua vita organica e psichica; cucendola punto su punto tra i suoi indicibili dolori, le passioni travolgenti, le stupende aperture amicali, divenute versi al calor bianco; eccoli in questa antologia, stupefatti e sensibili tutti dentro un senso di precarietà e proprio per questo pieni di identità, vivi.