Si è chiusa sabato sera con un buon bilancio la 78esima Mostra d’arte cinematografica di Venezia. La più antica manifestazione del cinema ha presentato, come già il recente Festival di Cannes, moltissimi titoli, poiché il fermo delle sale e degli eventi ha creato un tappo, con tante produzioni rimaste in attesa di presentare al pubblico i loro lavori. Salvo pochi più leggeri, sono stati ricorrenti i temi cupi, con frequenti scene violente e torture e sadismo che tornavano in parecchie storie, dal presente degli Stati Uniti (nel carcere di Abu Ghraib), del Messico o dell’Ucraina al passato dell’Unione sovietica. Opere mediamente tutte stimolanti provenienti soprattutto dall’Europa e dal continente americano, poco presente invece l’Asia e soprattutto l’Estremo Oriente, spesso terra di grandi film e proposte originali.
Ne è uscito un concorso con ben 23 concorrenti e di livello abbastanza buono. Senza un netto favorito, il Leone d’oro (quelli alla carriera sono stati consegnati a Roberto Benigni e Jamie Lee Curtis) potrebbe essere rimasto in Europa, magari a est con un trittico di film molto forti, con la padrona di casa Italia con buone possibilità con i suoi cinque titoli in gara. In buona posizione anche un gruppo di pellicole di Francia e Spagna, senza dimenticare gli americani: Il collezionista di carte di Paul Schrader, forse il migliore del lotto ma sempre trascurato nei festival, Mona Lisa and the Blood Moon di Ana Lily Amirpour, quasi un horror con una psicopatica giustiziera (sarebbe un bis per un film di genere ed eccentrico dopo Titane, Palma d’oro a Cannes), mentre Spencer di Pablo Larrain su Lady Diana è stato accolto in maniera molto contrastata.
Il lavoro più singolare tra gli italiani, che allineavano i quotati È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino e Qui rido io di Mario Martone, è Il buco di Michelangelo Frammartino. Il regista milanese autore di soli tre film in vent’anni (Il dono del 2003 e Le quattro volte del 2010) è tornato in Calabria per un’opera di grande suggestione e difficile da incasellare, tra fiction e documentario. Ricostruisce, facendo parlare solo le immagini e senza dialoghi, come nel 1961 una spedizione speleologica partita da una Milano in fermento arrivò nel sud Italia che cominciava ad essere abbandonato per esplorare una cavità tra le montagne del Pollino.
Il gruppo attraversa paesi dove la vita segue ancora i ritmi del passato dell’artigianato e della pastorizia, mentre le immagini del Pirellone appena terminato arrivano attraverso la televisione con un bellissimo spezzone d’archivio in bianco e nero. Alla metropoli del nord che cresce verso l’alto si contrappone un sud quasi immobile e tutto da esplorare, scendendo verso il basso. I giovani speleologi si calano nell’abisso del Bifurto fino a 683 metri di profondità, al limite di un’ampia conca erbosa dove pascolano mucche e cavalli. Fogli di carta incendiati buttati nel vuoto servono a vedere lo sviluppo della cavità che si illumina all’improvviso con immagini spettacolari, intanto, fuori, un anziano pastore si sente male. Il regista, con il suo tocco poetico unico, assiste, partecipa, si stupisce e non calca mai la mano. Ci sono poche parole, si resta a guardare la vita e la sua fine, le fasi dell’esistenza, le meraviglie della natura e la ricerca di nuovi limiti da parte dell’uomo. Le splendide immagini, tra il chiuso e gli spazi aperti, tra la luce e il buio, sono del grande direttore ticinese della fotografia Renato Berta.
Completamente diverso Illusioni perdute di Xavier Giannoli, ottimo adattamento del capolavoro di Honoré de Balzac. Il regista francese di Marguerite e L’apparizione torna a Venezia e non illustra ma rende vivo un mondo non così distante dal nostro. La voce off del narratore ci accompagna efficacemente a seguire il giovane e ambizioso Lucien che lascia la natale Angoulême per Parigi in compagnia della bella e nobile Louise, inseguendo sogni di scalata sociale e gloria letteraria. Si troverà immerso nel fermento della Francia della Restaurazione, in mezzo a tanti giovani e letterati senza scrupoli, terreno fertile per far nascere nuove riviste.
Tutto sembra a portata di mano, basta essere pronti a giocare pesante: notizie false create ad arte, opinioni vendute al miglior offerente, idee cambiate per opportunismo, claque che decretano il successo o il fallimento degli spettacoli. Lo schema di ascesa e caduta è quello che Balzac contribuì a rendere classico e che Giannoli riesce a far diventare vivo e attuale, con una bella ricostruzione d’epoca che però non pesa: pare di assistere a un film tumultuoso ambientato ai giorni nostri e non due secoli fa, il mercanteggiamento diffuso accomuna il giornalismo vecchio stampo al mondo dominato dai social.
Rivelatosi due anni fa con Atlantis, l’ucraino Valentyn Vasyanovych torna in Reflections a parlare della guerra che lacera il suo Paese. Siamo nel 2014 e il chirurgo Serhij è fatto prigioniero e torturato dai filorussi. Riuscito a sopravvivere assiste alle morti di altri malcapitati per il sadismo di questi soldati: i cadaveri vengono eliminati dentro un forno crematorio mobile nascosto in un camion di aiuti umanitari.
Molto duro è pure il polacco Leave no Traces di Jan P. Matuszynski, ambientato nel 1983. Grzegorz, un giovane maturando, è arrestato e picchiato a morte dalla polizia, che però non ha lasciato traccia di botte sul cadavere. L’amico Jurem ha assistito e testimonia contro gli agenti, sostenuto da Barbara, madre dell’ucciso e poetessa vicina a Solidarnosc e a padre Popieluszko, che sarà a sua volta assassinato. Un film teso che ispeziona ogni aspetto della vicenda, come si accusarono gli infermieri che invece soccorsero o le pressioni sul padre del testimone per convincerlo a cambiare idea.
Unica commedia in gara il riuscito Competizione ufficiale del duo argentino Gaston Duprat e Mariano Cohn già apprezzato per Il cittadino illustre (2016). Penelope Cruz e Antonio Banderas, con l’aggiunta di Oscar Martinez, regalano momenti esilaranti e autoironici.