Grande arte da tutto il mondo
Il fondatore della Migros Gottlieb Duttweiler posò la prima pietra della collezione d’arte del Migros Museum für Gegenwartskunst, che oggi conta circa 1400 opere di 700 artiste e artisti nazionali e internazionali. L’unicità della collezione è rappresentata dalle numerose grandi installazioni che comprende, come ad esempio l’opera Show a leg di Pipilotti Rist. Quest’ultima è esposta dal 25 agosto all’11 novembre.

Poesie in movimento
Pipilotti Elisabeth Rist (56) è una delle più celebri artiste svizzere. Le sue installazioni video, che lei stessa definisce <poesie in movimento>, sono state esposte nei più rinomati musei del mondo, tra cui il MoMA di New York, il MCA di Sydney e il Centre Pompidou di Parigi. Per le sue opere ha ricevuto numerosi premi, come il Premio 2000 della Biennale di Venezia.
Rist vive e lavora a Zurigo e attraverso la sua opera cerca di rendere onore al proprio nome. Sin dall’adolescenza si fa chiamare Pipilotti, ispirandosi a Pippi Calzelunghe. Per lei il nome è anche uno stimolo a vivere libera da inutili convenzioni e dalle paure – cosa per niente facile, ma molto laboriosa, proprio come l’arte. 

Pipilotti Rist, Show a Leg (Raus aus den Federn), 2001, (Sammlung Migros Museum für Gegenwartskunst, videostill: Courtesy of Pipilotti Rist, Hauser & Wirth und Luhring Augustine)


Più bellezza nell’arte

Irriverente, spregiudicata e perfino scandalosa: Pipilotti Rist, l’artista più eccentrica della Svizzera, in mostra dal 25 agosto al Migros Museum für Gegenwartskunst
/ 20.08.2018
di Pierre Wuthrich, traduzione dal tedesco Simona Sala

Pipilotti Rist, in una Svizzera in cui si tende sempre ad adattarsi, lei passa per quella disadattata. A giusta ragione?
A volte incontro delle persone di fronte alle quali io sono la più normale del mondo. Ma in determinati contesti ci vuole veramente poco per venire etichettati come «disadattata».

Crede di essersi guadagnata questa etichetta?
Preferirei essere più disadattata di quanto non sia in realtà. Ma è una questione di forza e di tempo, perché è necessario sapersi difendere per non sentirsi isolati. E trovare costantemente delle idee per vivere meglio e in modo diverso una determinata situazione richiede molta energia. Per questo è più comodo adattarsi.

La sua arte è dunque più «adeguata» rispetto a quella di un tempo?
Anche sotto questo aspetto ci sono entrambe le opinioni: la nostra società vive suddivisa in molti gruppi: una medesima cosa può da una parte avere un effetto provocatorio e allo stesso tempo venire vissuta come un gioco da qualcun altro. Chi decide cosa è la provocazione? Se rimandassimo indietro di 50 anni una persona con indosso una t-shirt e jeans stretti, per le persone dell’epoca sarebbe uno choc totale. Oggi i trend e le possibili culture si mescolano molto più di un tempo.

Quando si dice che la sua arte è come un trip da stupefacenti, significa che non si è capita la sua arte, oppure è una definizione con cui lei riesce a convivere?
Devo farle a mia volta una domanda: di quali stupefacenti stiamo parlando?

Il suo film Pepperminta aveva il sapore dell’LSD per tutti quelli che non la prenderebbero mai per paura delle conseguenze e dei colori.
In questo senso definire la mia arte come un trip è un complimento. Anche perché le droghe portano alla luce solamente quello che è già presente. Nella mia arte ci sono spesso in gioco dei mondi interiori. E se la mia arte riesce a tirarle fuori, credo che sia una cosa buona. In fondo il lavoro dell’artista è quello di materializzare le fantasie degli esseri umani. Ma la sensazione di euforia può nascere anche attraverso una conversazione divertente, o nel dormiveglia, quando la realtà e il subconscio si mescolano. Le esperienze legate alla droga possono essere provocate anche senza ricorrere alle droghe.

Lei desidera investire la sua opera di un messaggio più importante?
Sì, desidero investire la mia forza e il mio tempo in minor misura in ciò che è negativo, concentrandomi piuttosto a mettere in luce gli aspetti positivi. In fondo le cose tristi si trovano comunque ovunque. La fuga in avanti, verso visioni positive ed energetiche, è il frutto di una decisione consapevole. Legata comunque al rischio di essere puniti.

Perché?
Se nell’arte ci si concentra sulle cose negative, si appare più profondi e interessanti. Le opere d’arte positive invece, che riescono a coinvolgere molta gente toccandola a livello emotivo, rischiano di venire etichettate come meno intellettuali. Anche il rapporto con la bellezza nell’arte diventa più difficile: si sostiene infatti che la bellezza sia corrotta e che l’arte debba distanziarsi dagli aspetti più commerciali. Non sono sempre d’accordo con questa posizione, non possiamo lasciare che della bellezza si occupi unicamente la pubblicità. Credo che la bellezza e l’armonia debbano essere presenti anche nell’arte per rilassare il cervello in modo attivo e permetterci di stimolarlo al punto da farlo vibrare.

E ottiene tutto questo grazie a opere d’arte variopinte e belle?
Trovo divertente che lei abbini questi due aggettivi. Sì, utilizzo spesso i colori. Probabilmente perché il colore è sempre indice di una vita piena. Forse gli esseri umani temono i colori forti perché sono talmente pulsanti da risultare difficilmente controllabili. Ma ci siamo di nuovo: i colori forti sembrerebbero più idonei per moda e pubblicità. E in generale per le donne, diversamente da quanto accade ad esempio per gli uccelli. Gli uomini mi fanno pena perché possono indossare solamente pochi colori, anche se, fortunatamente, in questo senso le cose stanno cambiando.

Lei scatta dei selfie?
No, in realtà solo raramente. A volte faccio uno screenshot quando sono su Skype, così da avere un ricordo per entrambe le parti. Quando la luce è strana e bella. Dunque non faccio dei normali selfie.

Su Instagram ci sono 37’000 rimandi a «Pipilotti Rist». Lei è una star dei social pur senza postare nulla!
Due settimane or sono ho incontrato l’architetto d’interni India Mahdavi, di cui sono un’ammiratrice: lei, che è una grande utente di Instagram, mi ha detto che è grandioso avere un così alto numero di citazioni, poiché sono ancora più importanti dei follower. Sebbene io non possegga un profilo di Instagram, ovviamente tutto questo mi fa piacere. In fondo le persone fanno un lavoro: fotografano la mia arte, caricano la foto, vi mettono una didascalia. In questo modo le persone sono attive.

E così la sua arte si moltiplica. Così facendo coinvolge anche le persone giovani che altrimenti non andrebbero a una sua mostra.
Sì, Internet e gli hashtag sono dei ponti democratici ai quali hanno accesso tutti. I visitatori del museo grazie ai loro post fanno una sorta di moderna propaganda bocca a bocca.

Allo stesso tempo sui social media ha luogo un’estrema follia autorappresentativa. Da una parte si desidera essere unici, ma alla fine il filtro fotografico porta all’opposto.
Questo non vale solo per il selfie, ma anche per strada. Il desiderio di non essere esclusi – anche da un punto di vista meramente ottico – rappresenta un profondo bisogno umano. Magari vogliamo essere un po’ più belli, ma prima di tutto non vogliamo uscire dagli schemi. Un tempo solo i ricchi potevano farsi ritrarre, e anche loro si facevano rappresentare in modo idealizzato. Oggi tutti possono farsi dei selfie, è diventato un processo più democratico. Allo stesso tempo le persone in questo modo imparano a gestire la tecnica, diventiamo più emancipati nel rapporto con le immagini.

Crede che la follia dell’autorappresentazione sia un fenomeno prettamente femminile?
No, anche le pressioni sugli uomini sono aumentate. È un fenomeno che ha più a che fare con la coscienza di sé che con il sesso. Il fatto che noi donne veniamo definite più spesso attraverso il nostro aspetto esteriore è un effetto collaterale del patriarcato.

Lei si avvale di molta tecnologia nella creazione delle sue opere. Quali sono i suoi criteri di scelta?
Io amo le macchine. Mi sono avvicinata a diverse tecnologie non appena sono state rese democraticamente accessibili. Ho iniziato con diapositive e Super8. Poi è arrivato il video, ma a quell’epoca non sapevo ancora che sarei diventata un’artista. Guardo al mio lavoro realizzato con tecnologie diverse come a un servizio sperimentale. In questo modo offro dei palcoscenici a esseri umani e spettatori, che diventano l’epicentro. Cerco anche di liberare il video dallo schermo quadrato. Per me il video non è una finestra a una sola faccia, quanto piuttosto un Wunderlicht, dal quale ritorna qualcosa.

Lei cura un archivio contenente tutte le sue produzioni. Cosa succederebbe se tra 50 anni non dovesse più esserci la tecnologia necessaria per vederle? È una cosa che la spaventa?
Questo problema non riguarda solamente me, ma tutta la società: come gestiamo i nostri dati? In realtà si dovrebbe salvare in modo selettivo, riflettere a fondo su ciò che si vuole conservare e su quello che invece si vorrebbe cancellare. Ovviamente nessuno ha il tempo per farlo. Ma non ho paura, anche un quadro a olio dopo quattrocento anni non è più quello delle origini. La tecnologia cambia costantemente. Quando mio figlio guarda dei video nel formato PAL si lamenta della messa a fuoco. D’altra parte molti artisti oggi considerano il 4K troppo nitido. Lo trovano un ostacolo poiché non lascia spazio ai mezzi toni. Le cose che non sono realistiche a livello fotografico spesso riescono a trasmettere meglio i sentimenti di quanto non facciano le immagini estremamente nitide.

Show a Leg, attualmente in mostra al Migros Museum für Gegenwartskunst, è nato nel 2001. Lei è visibile nelle produzioni video. Si tratta della sua forma di follia autorappresentativa?
Non mi interessa solamente l’autoritratto. È più semplice ripetere una scena mille volte quando sono io a farlo. Ma senza altre persone sarebbe impossibile: le altre due persone che appaiono in «Show a Leg» sono Moni Schori, che oggi, guarda il caso, è la responsabile tecnica del Migros Museum e Nadia Schneider, odierna curatrice della collezione. Mostrare l’opera proprio in quella sede ha dunque doppiamente senso. In mostra ci sono dei tendaggi che vengono accarezzati dalle proiezioni. I visitatori si renderanno conto che solo mettendosi nella stessa posizione del proiettore riusciranno a vedere un’immagine non distorta. Questo ha una componente psicologica: si capisce il prossimo unicamente se si prova a immaginarsi nella sua posizione.

In campo fotografico si rimprovera agli artisti di mostrare il proprio corpo nelle fotografie. Lei lo fa da tempo.
Quando sono io a interpretare un ruolo, non mi interessa l’autorappresentazione, bensi il ruolo filosofico. In questo modo cerco di affrontare dei temi che riguardano tutti. Il corpo è semplicemente il materiale fondamentale che ho a disposizione. Alla fine il nostro lavoro di artiste e artisti è di essere criticati. Questa è anche la differenza tra un lavoro personale e uno anonimo. Non si ha un committente ma si offre sempre l’altra guancia.

Nella sua arte non appaiono solamente dei corpi, ma spesso anche il tema della sessualità.
Mi occupo direttamente di sessualità tutt’al più in «Pickelporno». Parlerei piuttosto di fisicità, che per me non corrisponde necessariamente a sessualità. Ha piuttosto a che fare con il fatto che noi esseri umani in fondo appariamo come dei coralli.

Davvero?
Sì, se guardiamo da vicino noi esseri umani siamo un miscuglio tra il maiale, la scimmia e un corallo.

Pickelporno ha già qualche anno. Il corpo per lei è diventato meno interessante a causa del fatto che oggigiorno lo ritroviamo ovunque?
«Pickelporno» è nato dal dibattito femminista di allora: molte donne trovavano schifoso il genere porno. Io però mi sono chiesta come dovrebbe essere un film erotico, affinché possa piacere anche a me come donna.

Nell’arte le donne sono state per molto tempo una rarità. Ci sono cambiamenti in questo senso?
Sì, ma i cambiamenti sono positivi per tutti gli esseri umani. Le biografie e le scelte di vita sono diventate più aperte. Per impostare la propria vita non sono più necessarie la forza fisica o l’appartenenza a una classe. Trovo estremamente positiva questa cosa. Ho una madre che si è sempre presa molte libertà. Su di lei potevo contare, non mi ha mai detto quello che sarei dovuta diventare.

Se per un giorno potesse essere di sesso opposto, cosa cambierebbe? E guarderebbe in modo diverso alla propria arte?
Mi piacerebbe avere i seni sulla schiena. No, scherzi a parte, spesso mi sento uomo. Oppure per ore non penso al fatto che esistano i sessi. Tra i due sessi le parti del corpo uguali sono molte di più di quelle diverse. Inoltre credo che ognuno guardi la mia arte a modo suo.

Farebbe un’arte diversa, se si chiamasse Peter, invece di Pipilotti?
Non credo. Durante un festival cinematografico abbiamo fatto l’esperimento di guardare dei film senza conoscerne gli autori. Dovevamo poi indovinare se il film era stato girato da un uomo o da una donna. Non ci siamo riusciti. Ma una volta in possesso della soluzione ci siamo resi conto che guardavamo i film in modo diverso.

Lei paragona la sua arte a una borsetta. Se fosse un uomo la paragonerebbe a un coltellino tascabile?
Sì, credo che la mia arte sarebbe valutata diversamente, ma questo non vale solamente per il mondo dell’arte. Quando due donne parlano animatamente, si pensa a un momento di distrazione, quando a parlare sono due uomini si dice che discutono. Nessuno è al riparo da questi pregiudizi, nemmeno io. Credo che ci vogliano ancora 2 o 3 generazioni. Ma guardando ai giovani sono molto fiduciosa.

Dunque è femministicamente ottimista?
Sì. Per me è cambiato semplicemente il fatto che preferisco applicare il femminismo più a livello pratico che teorico. Nelle mie produzioni sono soprattutto le donne a lavorare nella tecnica. E tutto quello che ho imparato all’inizio – saldare, cablare – l’ho imparato da una donna: Käthe Walser. Lei è la responsabile della realizzazione del progetto «Show a Leg». Io sono femminista solamente quando mi ritrovo davanti una o uno sciovinista. A quel punto vado alla ricerca di argomentazioni. Ma il più delle volte sono circondata da uomini moderni che non mettono in campo nessun senso di superiorità. Se si parla unicamente a nome del proprio gruppo, si rischia di diventare egoisti. E debordanti. Io cerco di essere solidale con tutti quelli che ne hanno bisogno o che lo desiderano.

In letteratura si discute di quali temi non siano ancora stati sfruttati. Sono domande che sorgono anche nella sua disciplina artistica?
Credo che siano domande tipiche per ogni essere umano creativo. Si deve pensare a qualcosa che non sia ancora stato pensato. Ma non si conosce quello che non si conosce ancora. Si può però costruire su quello che è già presente. L’obiettivo è di creare un’immagine che porti la gente a dire: questo è quanto vedo in sogno.

In quale direzione vanno i suoi prossimi progetti?
Sto lavorando a un progetto di Augmented Reality. E vorrei che l’arte abbandonasse il contesto, ossia il museo. Per questo lavoro a un progetto con il WWF, che lancerà una campagna informativa riguardo alla morìa globale dei coralli. Per sostenere il progetto stiamo pianificando un’azione nello spazio pubblico.

Lei riesce a portare avanti più progetti contemporaneamente. Quanti progetti deve seguire per avere l’impressione che le cose si muovano?
Abbiamo sempre progetti di dimensioni diverse che si trovano in stadi e luoghi. Vi sono inoltre molti progetti che muoiono strada facendo e che non hanno luogo. O che necessitano di lunghi tempi di preparazione: al Museum of Modern Art di New York (MoMA) ci sono volute sei diverse proposte prima che la mostra avesse luogo. Ci sono voluti sette anni.

Quale percentuale del suo lavoro non esce mai dal suo atelier?
Direi circa un quarto.

Chi lo decide?
A volte il progetto non è possibile per motivi di sicurezza tecnica. All’inizio è stato il caso per il MoMA . Oppure non funziona per motivi economici. Alla fine decido io: se i compromessi diventano troppo grandi preferisco fare un Cut. Abbiamo un classificatore, «progetti irrealizzati», in cui collezioniamo anche questi sogni.

Artisti come Damien Hirst o Takashi Murakami hanno delle imprese con 100-200 collaboratori. Anche lei nell’atelier ha dei collaboratori. Potrebbe immaginare il processo creativo accompagnato da una tale moltitudine di persone?
No, non rispecchia il mio carattere. Più persone ci sono in un team, e più nasce la gerarchia. Io sono molto felice di potere lavorare da sola o con poca gente, prendendomi le mie responsabilità. Lavoro in modo collaborativo, coltivando sempre il dialogo diretto. E si tratta di partenariati molto lunghi; ad esempio con il grafico Thomas Rhyner lavoro da quando avevo quattordici anni.

Cosa auspica per l’arte futura?
Vorrei che arte e quotidianità si mescolassero. E spero che le offerte e le istituzioni culturali siano ancora più diffuse e accessibili a tutti. Per questo è importante la mediazione culturale. Grazie ad essa anche i bambini possono godere di stimoli culturali e imparano a giudicare un’immagine. Oggigiorno, con il costante flusso di immagini, è molto importante gestire le immagini consapevolmente. In questo modo si creano degli accessi all’arte anche per i figli di genitori che all’arte non si sono mai interessati. Apprezzo molto il fatto che attraverso il Percento cultuale la Migros si impegni a favore dell’arte contemporanea. Maurizio Nannucci ha detto: «Tutta l’arte una volta è stata contemporanea». Vorrei che questo non venisse dimenticato. Anche il politico più conservatore andrebbe in giro vestito con un sacco per le patate, se una prestazione culturale non avesse creato l’abito maschile.