Sarà anche vero che, nei cosiddetti «magici anni 70», il sud dell’Europa continentale – nello specifico, l’Italia – poteva forse apparire artisticamente meno all’avanguardia rispetto a Paesi come il Regno Unito e gli USA, dove in quel periodo la musica pop-rock era al suo massimo picco di eccellenza, sperimentazione e genialità; eppure, nonostante questo, il pubblico italofono è sempre stato molto reattivo e sensibile nei confronti delle novità che arrivavano dal mondo anglofono – tanto che, a cavallo tra gli anni 60 e 70, legioni dei gruppi musicali più in voga toccarono la penisola nell’arco delle loro tournée internazionali, sebbene si sia oggi persa traccia di molte di quelle esibizioni.
È anche per questo che l’uscita di quest’album dal vivo dei Pink Floyd è particolarmente significativa come testimonianza di un momento per molti versi unico nella carriera della band, senz’altro considerabile come una delle più importanti e influenti nella storia della musica leggera; e questo fa sì che sia possibile passare sopra al fatto che non si tratti di un album ufficiale, e che il gruppo non abbia quindi avuto alcun ruolo nella pubblicazione (inevitabilmente sottotono) di questo CD, dato alle stampe dall’etichetta Audio Vaults. In effetti, The Return of The Sun – Live in Italy 1971 è un classico esempio di ciò che in gergo si definisce bootleg, ovvero una registrazione «clandestina», di solito realizzata artigianalmente dal pubblico, e per questo dalla qualità sonora spesso non eccelsa (come, infatti, avviene in questo caso). Tuttavia, documenta una serata quantomeno speciale: quella dello show tenutosi il 19 giugno di quell’anno a Brescia, all’interno del palazzetto allora noto come Esposizione Industriale Bresciana; ed è nientemeno che un doppio album, la cui tracklist suona assolutamente succosa per qualsiasi vero fan della formazione.
Difatti, questo show si concentra quasi esclusivamente su brani del periodo per certi versi più sperimentale e avanguardistico della band – quando, dopo l’uscita dal gruppo del geniale ma tormentato Syd Barrett, il timone creativo venne gradualmente impugnato dalla coppia composta da Roger Waters e David Gilmour, i quali avrebbero presto abbandonato gli accenti da pop psichedelico dei primi due dischi a firma Pink Floyd per prendere una direzione in seguito destinata a essere etichettata come puro «art rock», esemplificata da indimenticabili concept album, talmente avanguardistici da cambiare per sempre la storia della musica popolare. E se il culmine assoluto (almeno dal punto di vista della popolarità internazionale) sarebbe giunto con il celeberrimo The Dark Side of the Moon (1973), già i precedenti Ummagumma (1969) – e, soprattutto, Atom Heart Mother (1970), vero punto di svolta stilistica della band – avrebbero, per così dire, «mostrato la strada» a legioni di contemporanei e di successori, ben oltre i confini europei.
In questo set dal vivo, la band si concentra quindi su brani simbolici di tale particolare corrente stilistica personale, abbracciata tra la fine della propria prima fase creativa (’67-’69) e l’inizio della seconda, nel ’70; il che fa del doppio album un’istantanea perfetta di un momento di svolta quantomeno seminale, in cui alla capacità dei Pink Floyd di attagliarsi a un genere relativamente nuovo si univa la palese volontà, da parte dei loro membri, di prepararsi a stravolgerne i dettami, così da giungere a vette artistiche ben più alte di quelle toccate dai propri predecessori – riuscendo inoltre a portare un genere per certi versi «di nicchia» in cima alle classifiche mondiali. Ecco quindi che la tracklist di The Return of the Sun vede pezzi dal minutaggio insolitamente lungo, quasi esclusivamente strumentali (sebbene qua e là, come ad esempio nel maestoso Set the Controls for the Heart of the Sun, ci sia la concessione ai tipici, ossessivi e ipnotici vocals del tempo); e uno dei pezzi forti è senz’altro costituito dall’eccelso The Return of the Son of Nothing, una sorta di prima versione di Echoes la cui magnificenza si esprime in un tripudio di sonorità via via più estreme e quasi dodecafoniche.
Di fatto, l’intero set bresciano è condotto in modo assolutamente magistrale, a partire dalla solennità della quale ogni brano è ammantato, fino all’impeccabile esecuzione di pezzi che quasi nessuna giovane band attuale sarebbe oggi in grado di riprodurre dal vivo a causa della complessità tecnica e degli incredibili arabeschi strumentali – basti pensare a un capolavoro assoluto come l’onirico A Saucerful of Secrets, pezzo che si estende per oltre trenta minuti e che, secondo molti, rappresenta la prima, esplicita sortita della band nel genere «progressive». E sebbene, come logico, questo doppio CD non sia facilmente reperibile quanto un album ufficiale dei Pink Floyd, una cosa è certa: per chi porta tuttora nel cuore la magnifica formazione di allora, qui immortalata in uno dei suoi maggiori momenti di gloria, questo è senz’altro un acquisto imperdibile.