Bibliografia
Ilaria Vajngerl, Le magie, Galaad Edizioni, 2021.


Piccoli posti, piccole cose

Convincono i racconti di cose minime dell’autrice italiana Ilaria Vajngerl
/ 22.11.2021
di Roberto Falconi

Antonino conosce Annamaria all’Università, durante «il maggio di Analisi 2, caldo e pieno di numeri». Lei gli dice che ama tutto di lui. Anche i suoi occhi storti. Nessuno glielo aveva mai fatto notare, e Antonino ne fa una malattia. «Tu hai il culo largo», replica lui stizzito. I due si lasciano «un venerdì pieno di freddo». Un quarantenne si fa consegnare a casa una pizza capricciosa ogni fine settimana. Gliela porta sempre Caterina, una ragazza all’ultimo anno di liceo che svolge quel lavoretto quando non deve studiare. Lui la pensa sempre più spesso, lei si trattiene ogni volta un po’ di più a casa sua. Fino al giorno in cui lui deciderà di sostituire i due quadri dell’ingresso con un attaccapanni «dai pomelli colorati», al quale lei possa appendere la borsa quando si ferma a dormire.

Sono solo alcune delle situazioni di provvisorietà delle relazioni che attraversano i racconti con cui Ilaria Vajngerl, dopo alcune pubblicazioni su rivista, giunge alla forma libro. Separazioni, nuovi inizi, matrimoni spesso logori che pongono i personaggi di fronte alla necessità di scegliere: ne Il primo uomo, una donna resiste a fatica ai tentativi di seduzione di un uomo che la fa di nuovo sentire desiderata; ne La roulotte, lo sguardo di un nipotino coglie il bacio furtivo che la nonna, ancora giovane e piacente, scambia in spiaggia con un amico di vecchia data.

E poi ci sono le sofferenze della genitorialità. Madri e padri costretti a tollerare in silenzio la distanza di figli adolescenti sempre meno comunicativi (Le bestie). Ma anche bambini spaesati che assistono impotenti alla separazione dei genitori: un ragazzino è solo in un «campo che ha cominciato a imbiondire». Prova a lanciare il boomerang vinto dal padre al tirassegno, ma quello non torna mai indietro. E forse non tornerà neppure sua madre, che, pur partendo in una mattina di primavera «solo per un po’ di giorni», dall’armadio «si è portata via anche i maglioni di lana».

Non a caso, l’autrice indaga con frequenza le soglie attraversate durante l’adolescenza, gli attimi in cui i potenziali pericoli si disinnescano oppure si trasformano in drammi: così, due ragazzi si riappacificano con il loro migliore amico quando scoprono che non ha conquistato la più bella della classe (Gli invincibili); specularmente, tre ragazze danno fuoco alla compagna che si è messa con l’ex fidanzato di due di loro (Luce dei miei occhi).

Ma i racconti non si limitano a trattare frontalmente il motivo dell’impermanenza delle cose: Ilaria Vajngerl costruisce una fitta tramatura di elementi tra loro dissonanti e più o meno nascosti sotto la superficie del testo, come le crepe che lentamente e silenziosamente solcano l’uniformità delle vite dei personaggi. Ai racconti a lieto fine, tanto per cominciare, fanno da contraltare pezzi che si chiudono in modo drammatico, come nel caso delle due fiabe moderne che si richiamano tra loro nella prima parte della raccolta.

In Dinamiche famigliari, la piccola Sara sente i genitori litigare e cerca sul dizionario il significato delle parole («cornuto», «pompino», «irrecuperabile», «assegno di mantenimento») che i genitori si urlano addosso e che filtrano nella sua cameretta «costruita col cartongesso». Un giorno decide di rimpicciolire, tanto nessuno sembra più (pre)occuparsi di lei. La ritroveranno nascosta nella narice di un maiale di pezza, e forse le «dinamiche famigliari» del titolo finalmente cambieranno. Resteranno invece indelebili le ferite dei due fratelli che, ne Le magie, subiscono gli abusi di alcuni preti al campo estivo dove li hanno spediti una madre che pare accettare tutto in silenzio e un padre che ogni mese si gioca l’intero stipendio alle slot machine.

Allo stesso modo, lo si è già capito, la silloge è composta da pezzi di genere diverso: racconti realistici, oppure interamente costruiti su battute scambiate in chat (Amen), oppure ancora grotteschi o magici, come nel caso di Giuda, in cui il cane di una giovane coppia tradisce i padroni aprendo la porta a sconosciuti mentre è solo in casa; oppure de La solitudine di Laika, che si chiude con l’atterraggio sulla Luna del condominio in cui vive una donna incapace di far fronte alla propria maternità. E ai toni più seri, capaci di fissare, anche se con semplicità, i momenti nei quali la vita prende un’altra via («La prima volta in cui mi sono sentita orfana è stata quando mi è venuta la febbre e sono dovuta andare in farmacia a comprarmi le medicine, sono guarita e nessuno è stato contento»), si alternano passi più ironici (per il loro matrimonio, Alessandro e Cristina «avevano chiesto la messa in latino per sorprendere tutti i loro amici e c’erano spiacevolmente riusciti»).

La natura frammentaria del libro è almeno in parte riassorbita da una serie di elementi ricorrenti che stabiliscono connessioni interne più o meno patenti tra i singoli racconti. Anzitutto nella caratterizzazione dei personaggi, che si richiamano esplicitamente nei ruoli (la baby sitter, con almeno due occorrenze), nei tratti esteriori (tre le figure femminili con gli occhi verdi; altrettante quelle con gli orecchini pendenti), nelle piccole occupazioni quotidiane (due i pezzi in cui alcuni ragazzi, nella calura estiva, si sdraiano a prendere il fresco dal pavimento; due gli uomini che cucinano il risotto), nelle numerose allusioni al giorno del matrimonio.

Personaggi che si muovono in una geografia minima, fatta di pochissimi luoghi reiterati (la stazione, le giostre, la scuola, il supermercato, il bilocale con terrazzino); una provincia entro la quale consumano le proprie esistenze figure la cui provvisorietà è emblematicamente fissata dal posteggio fuori dal posto di lavoro (due occorrenze) in cui possono o meno iniziare amori adulterini. Spazi minimi, e minimamente descritti, in cui tornano le medesime cose: gli oggetti appiccicosi, i deodoranti per il corpo, le bibite gelate, i cani.

Infine, e mi pare davvero l’aspetto più rilevante, l’autrice convince nella scelta di una scrittura ellittica che valorizza i dettagli e gli spazi bianchi tra il punto fermo e l’inizio del periodo successivo. Peccato che all’efficacia degli incipit («Quando Antonino aveva messo gli occhiali era novembre»; «Filomena non sapeva leggere l’orologio») segua qualche insistenza di troppo nella ricerca della metafora («I cipressi si allungavano aspettando di infilzare la sera»; «L’ascensore aspettava assopito»), con esiti talora maldestri (il bosco è «pronto a tracannarsi la notte»).

Ora, giusto per chiarire in chiusa quel che forse andava detto all’inizio: non è questa un’opera che passerà alla storia della letteratura, ma in un mercato ipertrofico come quello italiano sarà il caso di segnalare, accanto a quelli davvero meritevoli, i libri onesti che rischiano di passare (ancor più) inosservati nel mare magnum di tanti velleitarismi che hanno il solo merito di essere sponsorizzati dai circuiti dominanti.