«Poeta del mondo terreno» era, per il filologo tedesco Erich Auerbach, l’autore della Commedia («divina» in una successiva aggiunta di Giovanni Boccaccio). Ne sa qualcosa Giulio Ferroni che per ripercorrere tutti i luoghi d’Italia citati nel poema ultraterreno ha impiegato tre anni assai terreni, in un viaggio molto concreto e molto fisico, come è la poesia di Dante. Mosso da una lontana passione giovanile per la geografia, un vasto appetito di baudelairiana memoria («Pour l’enfant, amoureux de cartes et d’estampes, / l’univers est égal à son vaste appétit», Le voyage), Ferroni ha dovuto attendere la conclusione della sua lunga carriera professionale presso l’Università «La Sapienza» di Roma per poter finalmente dare corpo – è il caso di dirlo – a questo sogno, sostenuto e promosso dalla Società Dante Alighieri a ridosso del settimo centenario dalla morte del poeta.
Messi in fila tutti i toponomi della Commedia e organizzati per grandi aree geografiche, da sud a nord, da est a ovest dello Stivale, e in alcuni casi persino oltre, l’autore li infila tutti uno per uno in una sorta di grande diario di viaggio che potrebbe essere un perfetto Baedeker dell’Italia del 2021, non fosse per la mole del libro decisamente imponente, oltre 1200 pagine, non adatto quindi a essere trasportato in un tascapane (ma già si annunciano prodotti digitali costruiti con i medesimi contenuti). L’intenzione era innanzitutto quella di verificare la consistenza di questi luoghi, la loro sopravvivenza nel tempo, la loro valenza culturale e naturalistica, spesso ancora molto presente nonostante la distanza intercorsa dai tempi di Dante: si leggano ad esempio i paragrafi dedicati alla Pietra di Bismantova (citata nel IV canto del Purgatorio) o alla Cascata dell’Acquacheta («Come quel fiume c’ha proprio cammino / prima dal Monte Viso ’ nver’ levante», Inf XVI), due luoghi tra gli altri che hanno lasciato il segno nel pellegrino di oggi.
Che l’operazione sia al contempo molto razionale, perché condotta con il rigore e il metodo di uno studioso, e molto personale, con le movenze più tipiche di un lettore appassionato, traspare già dalla prima tappa, un luogo non immediatamente dantesco come Napoli, eppure così legato alla struttura stessa del poema: tradizione vuole infatti che nella città partenopea sia stato seppellito Virgilio, nel cui segno, dopo quelli di Maria e Beatrice, si iscrive il grande viaggio. Alla prima guida di Dante anche Giulio Ferroni ha voluto dunque affidarsi, per poi procedere verso Roma, Firenze, l’Umbria e le Marche e, attraverso l’Appennino tosco-emiliano, scendere verso l’Adriatico e tornare di nuovo sul Tirreno, senza dimenticare Sicilia e Sardegna, luoghi nei quali Dante non fu mai, ma che pure facevano parte della sua geografia mentale («L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, / fin nel Morocco, e l’isola d’i Sardi», nelle parole del viaggiatore Ulisse, nel XXVI canto dell’Inferno).
Non ho voluto contarle, ma ho il sospetto che se rimontassimo tutte le citazioni in esergo con cui si inaugurano i moltissimi capitoli del libro, avremmo una Commedia quasi completa: Dante in sostanza «vive» nel libro di Ferroni, con le sue parole e la sua lingua, nella concretezza dei suoi riferimenti puntuali, storici, culturali. L’impressione è che, in controtendenza rispetto a mode recenti, qui non si sia voluto fare a meno di Dante, e si sia rinunciato a una traduzione-parafrasi per affidarsi ancora alla magia del testo originale, pur nella difficoltà (relativa) che esso ci impone. Nonostante questo, il volume riesce a essere anche molto leggero, personale, sentito, perché alterna all’erudizione necessaria la piacevolezza del diario, a volte persino troppo schietto: nei suoi giudizi su scrittori viventi, ad esempio, o di colleghi italianisti.
Invano si cercherebbe nelle utilissime piantine del libro, ma è «colpa» di Dante e non di Ferroni, un pur breve accenno all’attuale Svizzera di lingua italiana. La geografia della Commedia purtroppo non ci contempla: si avvicina da est, dalle parti del lago di Garda, «a piè de l’Alpe che serra Lamagna», e soprattutto da sud, a Milano e Pavia. In San Pietro in Ciel d’oro, davanti alle tombe di Sant’Agostino e Boezio, Ferroni si è sentito un piccolo pellegrino della nostra grande cultura, in fila dietro a Dante e Petrarca e a tutti i grandi autori del passato che si riconoscono nella medesima tradizione letteraria. La chiusa del libro è invece un insperato ritorno a Firenze, vista da lontano, dal poggio settentrionale dell’Uccellatoio, lungo la via bolognese. Una vista che è anche un sogno, quello del Dante esiliato, quello di tutti noi, viaggiatori di un altro tempo ma di una medesima condizione terrena.