Per un cinema più inclusivo

Personaggi - Arami Ullòn e Marí Alessandrini, due registe che parlano della loro terra natale senza peli sulla lingua
/ 15.11.2021
di Giorgia Del Don

Arami Ullòn e Marí Alessandrini condividono ben di più dello sradicamento da una terra natale che continua a vivere nei loro film. Ciò che davvero le accomuna è la capacità di stabilire con questa stessa terra un rapporto fecondo e sincero, ritrascrivendo attraverso la settima arte una storia che da ufficiale diventa personale e multipla, formata da differenti punti di vista che si incontrano e scontrano, a volte in modo anche violento.

La distanza geografica si trasforma per entrambe in distanza critica, in occasione per osservare la loro storia, con tutte le sue ricche e dolorose contraddizioni, con un necessario distacco. Senza dare mai niente per scontato, le due cineaste sudamericane che hanno scelto la Svizzera come osservatorio privilegiato d’un mondo in costante mutamento non hanno paura di affrontare temi «scomodi», come quello dei popoli autoctoni del continente sudamericano ancora oggi relegati ai margini della società come qualcosa di accessorio.

Che sia attraverso la forma documentaria o la finzione, Arami e Marí decostruiscono un mondo falsamente semplice, ridanno alla realtà la sua necessaria complessità con lo scopo di interrogarsi sulle ragioni dell’esclusione. Che sia a causa di problemi mentali insidiosi, di credenze ancestrali che non si amalgamano con un dogmatismo feroce ed opportunista o di origini e imposizioni di genere incompatibili con le proprie aspirazioni, i film delle due cineaste danno voce e corpo agli esclusi di una società impietosamente binaria.

Praticamente coetanee, Arami e Marì nascono rispettivamente in Paraguay e in Argentina e si trasferiscono poi, per questioni personali e motivi di studio, in Svizzera: la prima a Basilea, la seconda a Ginevra. Senza conoscersi, le due portano con sé un bagaglio culturale che rappresenta la loro ricchezza e da cui non si separano mai. Ben lontane dai clichés legati all’America latina, le due registe si nutrono delle contraddizioni che abitano la loro terra natale costruendo narrazioni complesse e libere che ci svelano aspetti delle loro culture troppo spesso sotterrati sotto discorsi egemonici molto ben orchestrati.

La prima a lanciarsi nell’arena cinematografica è Arami Ullòn, con il suo potente e toccante primo film documentario El tiempo nublado, presentato in prima mondiale a Visions du réel di Nyon nel 2014. Allo stesso tempo formata alla regia (ha beneficiato di una borsa di studio della Boston Film and Video Foundation), ma anche produttrice dei suoi propri film, insieme all’immancabile Pascal Trächslin di Cineworx, Arami sa parlare del suo lavoro con una precisione e un coinvolgimento che non possono che interpellarci. A partire dal suo primo lavoro, la regista paraguaiana ha dimostrato un coraggio che è diventato caratteristico del suo cinema.

Se El tiempo nublado indaga nell’intimità di un rapporto doloroso e contraddittorio, quello fra una madre da molto tempo malata e di sua figlia (la regista stessa) divisa fra responsabilità e sopravvivenza, il suo secondo film del 2020 Apenas el sol che rappresenterà il Paraguay nella corsa all’Oscar 2022 per il miglior film in lingua straniera, amplia la prospettiva, che da intima diventa collettiva, occupandosi del popolo ayoreo, autoctono del Chaco paraguaiano, scacciato dalle sue terre ancestrali con il pretesto di essere «civilizzato».

Benché la regista sposti il suo sguardo verso una realtà esteriore, ciò che accomuna i due suoi primi due film è il concetto di sradicamento: quello scelto dalla regista che si è trasferita in Svizzera allontanandosi dalla madre e dalla sua malattia e quello imposto ad un intero popolo privato della sua identità. La regista, così come Mateo, il protagonista del suo secondo film che cerca di custodire i ricordi del suo popolo su fragili audiocassette, è alla ricerca della sua propria verità. Una verità che giace al di là delle parole e dei discorsi, troppo spesso costruiti ed insidiosi, che rimane iscritta nel corpo malgrado tutto e che affiora nei piccoli gesti quotidiani: in una carezza, nel gesticolare, nel tessere o cucire, attività che ricordano un mondo ormai scomparso di cui Arami e Mateo sono i custodi.

Questa volta attraverso la finzione, Marì Alessandrini sembra rispondere ad Arami interessandosi anche lei, con il suo intrigante primo lungometraggio Zahorí (2021) a quanti sono stati relegati ai margini della società in cui è cresciuta: gli abitanti, autoctoni ma anche idealisti frutto della controcultura degli anni sessanta, della steppa patagonica al confine fra Argentina e Chile. Un mondo a parte che la regista ha percepito sin da bambina come qualcosa di vicino (da un punto di vista geografico) ma allo stesso tempo di irraggiungibile, un luogo misterioso e pericoloso dove è meglio non avventurarsi. Ricche di un doppio punto di vista sulla società latinoamericana: quello europeo e quello ufficiale promulgato dai paesi stessi da cui provengono, le due registe si lanciano nella decostruzione di un discorso egemonico in bilico fra «esotismo» e idealismo romantico e la discriminazione vera e propria che porta con sé la negazione dell’eredità culturale dei popoli autoctoni del continente sudamericano.

Le due registe ci mostrano, ciascuna a modo suo, come la visione colonialistica sia tuttora una realtà palpabile che fa parte di un meccanismo di esclusione più vasto, quello di una parte della popolazione giudicata come «scomoda», che si tratti dei popoli autoctoni che invadono foreste dal potenziale economico sconfinato, dei poveri ma anche delle donne o della comunità LGBTIQ+. Mora, la giovane protagonista di Zahorí che sogna di diventare un gaucho malgrado sia considerata come «bianca», incarna molto bene queste contraddizioni che risente come qualcosa di estraneo, di costruito, barriere apparentemente infrangibili che imprigionano la sua vera natura: né femmina né maschio, né indigena né straniera, né essere umano né animale ma tutte queste cose insieme.

Attraverso un dialogo intenso e poetico con la natura che domina tutto il film, Marí Alessandrini ricerca una verità che va ben oltre i discorsi preconfezionati, una verità che nasce dal dialogo fecondo con «l’altro», che si nutre di contraddizioni senza mai pretendere l’esaustività. Con intelligenza e una rinfrescante dose di faccia tosta, Arami e Marì spostano lo sguardo ai margini per dare voce a un continente Sudamericano che speriamo riesca a guardare al futuro con più inclusività.