Per parlare del tempo

Riflessione su un tema complesso e antico quanto l’uomo, prendendo spunto dall’ultimo libro del fisico Carlo Rovelli (Prima parte)
/ 11.09.2017
di Maria Bettetini

Se nessuno me lo chiede, lo so bene. Ma se mi chiedi che cos’è il tempo, non so cosa rispondere. Che imbarazzo. E che intuizione geniale, sedici secoli fa: non siamo in grado di dire esattamente che cosa sia, il tempo, anche se è qualcosa da sempre presente (appunto) nella nostra quotidianità. Non lo hanno saputo dire tanto bene nemmeno gli scienziati, nei secoli, tanto che spesso si sono contraddetti tra loro, hanno capovolto delle certezze.

Per esempio, il tempo non è una «cosa», questo è evidente anche per noi non appartenenti al ristretto circolo degli scienziati puri, quelli che in habitat come il Cern si trovano a casa. Però un grande padre della scienza, Isaac Newton, non più di tre secoli fa descriveva il tempo come un grande contenitore che scorre sempre allo stesso modo, immutabile, uguale a se stesso, insomma un ente, una cosa a sé. E per me, per me adesso che cosa è il tempo? Dimentico rapida gli studi, voglio una risposta immediata, veloce. È quella cosa che può passare troppo in fretta, perché troppo corto, ma può anche non passare mai, sembrare lungo lungo. Sembrare. Non essere, se fosse, sarebbe lungo o corto, almeno il principio di non contraddizione concediamocelo, una cosa non può essere corta e non corta sotto il medesimo aspetto (bisognerebbe anche aggiungere «nel medesimo tempo», ma rischiamo di confonderci, ci siamo capiti). Sembrare, c’è qualcuno dunque che «giudica» il tempo, lo dice lungo o corto. C’è il riferimento a un soggetto. 

Per ora basti questo, perché vogliamo cedere la parola a un delizioso libretto, intitolato L’ordine del tempo (Adelphi). Lo ha scritto Carlo Rovelli, noto fisico teorico che al tempo ha dedicato la sua vita di ricercatore e che pertanto è in grado di spiegare questo mistero con parole comprensibili anche a chi fisico non è, a patto di acconsentire a farsi portare in campi di solito ritenuti lontani, astratti, ostici. 

Il linguaggio è piano, gli esempi alla nostra portata: «la differenza tra le cose e gli eventi è che le cose permangono nel tempo», di un sasso posso chiedermi dove sarà domani, ma non posso chiedermelo di un bacio, e «il mondo è fatto di reti di baci, non di sassi». Che cosa ci racconta dunque Rovelli del tempo? Ci parla del nostro sconcerto cercandone una definizione, del perché sembri lungo e corto. Ci racconta di Aristotele e sant’Agostino (è lui quello che se me lo chiedi non lo so). Per Aristotele, il tempo è «misura del movimento secondo un prima e un poi». È quindi il lavoro di qualcuno che usando un’unità di misura cerca di dare dimensioni al divenire: una definizione che, estrapolata dal contesto metafisico del quarto secolo a.C., potremmo accettare persino oggi.

Il libro di Rovelli sembra un giallo, perché dalla prima pagina il tempo perde tutte le caratteristiche che gli vorremmo attribuire, ma infine che cosa è? Cerchiamo il senso del tempo, la direzione dal passato al futuro, scopriamo che solo nell’equazione del secondo principio della termodinamica c’è un «verso», un obbligatorio andare del calore dal caldo al freddo, mai viceversa, con un aumento del disordine che porterà a uno stato di equilibrio. 

Come accade quando il cioccolato caldo viene versato sul gelato: si crea un breve, delizioso periodo di disordine, in cui freddo e caldo coesistono, ma se non si è veloci nel gustarlo si raggiunge in fretta lo stato equilibrato di una crema molle e tiepida. Questo andare verso una direzione però, spiega Rovelli citando Clausius, Boltzmann, e poi Einstein e Planck, non è nella struttura microscopica delle cose, che non hanno un prima e un dopo, ma nel nostro modo di vederle. Nella nostra incapacità di cogliere tutti gli stati microscopici di ciò che vediamo. Continuiamo a perdere pezzi: nulla scorre. Inoltre: mentre il mio adesso è adesso, mai potrà coincidere con l’adesso di una stella lontana.

Non solo perché – e questo lo sappiamo tutti – ci vogliono millenni prima che la sua luce arrivi ai miei occhi, ma anche perché quando arriva il mio adesso non è più quello di prima. Ricordate il paradosso della tartaruga che sarà sempre un pochino più avanti ogni volta che Achille la raggiunge? Ecco, nel micro e macroscopico Zenone aveva ragione. Perso anche il tempo presente, inteso come un grande «adesso» valido per tutto l’universo, Rovelli ci spiega che la misurazione di Aristotele e il contenitore di Newton tornano a vivere nella teoria di Einstein, seppur ricompresi (nota personale: non c’è Hegel con la sua dialettica tripartita, nel dire che tesi e antitesi poi si sintetizzano in Einstein: perché si tratta di una semplificazione. Sappiamo benissimo quanto per arrivare a Einstein migliaia di cervelli abbiano cercato, sbagliato, capito, e quanto lo stesso Einstein abbia cambiato idea su un aspetto o l’altro della relatività, e sia stato poi corretto da altri scienziati). (…continua)