Un Marco Solari sorridente ci accoglie al Palacinema di Locarno nei giorni caldi del Festival. C’è anche un bellissimo ficus lyrata con le sue foglie di violino baciato dal sole. Nelle culture orientali il ficus è simbolo di accoglienza, riconoscenza e rispetto. Questo, in particolare, esprime anche positività per il futuro. «La pianta emana vibrazioni – dice il presidente – e in tono scherzoso aggiunge: però le prende anche». E allora devono essere positive perché il ficus è in ottima forma, pare sorridere anche lui. Proprio come il presidente Solari nelle fotografie che dal 2000 ad oggi lo ritraggono con le tante personalità passate al Festival. Sorride agli artisti, lo vediamo accanto a Faye Dunaway nel 2013, a Jane Birkin nel 2016, ai politici – Doris Leuthard nel 2010 – o anche al cancelliere tedesco Gerhard Schroeder ospite della 59esima edizione. Il sorriso, quello aperto, che attraversa gli occhi, è un’attitudine alla vita che molto spesso viene insegnato anche dall’esperienza.
Sorride così spesso anche nella vita privata?
Parto dall’idea che chi sta attorno a me deve star bene. La vita è breve, bisogna coglierne ogni secondo, darle un senso e io lo trovo nel dare agli agli. Questo il senso della vita, nel piccolo come nel grande: dare agli altri, far piacere agli altri, accoglierli, metterli a proprio agio. Tutti possiamo dare quel minimo di calore, accennare un sorriso.
L’esperienza ha contribuito a farla sorridere?
Quando ancora ventenne studiavo a Berna espressi a mio padre il desiderio di andare all’Università a Ginevra per studiare scienze sociali. «Se te ne vai – mi disse – dovrai pagarti tu gli studi». Erano gli anni Sessanta, non era difficile trovare lavoro ma ebbi anche grande fortuna perché mi presero alla Kuoni. Così iniziai a viaggiare molto, ad accompagnare le persone, un po’ come avevo fatto a Berna guidando i gruppi per la città spiegando la cattedrale, le vergini folli, le vergini sagge…Andai in Asia, ne ero innamorato, erano tempi splendidi – non era tutto americanizzato come oggi – e il sorriso lo incontravi ovunque. Quell’esperienza mi ha insegnato il valore di far stare bene le persone, di andare incontro all’altro.
Quel sorriso ha poi avuto modo di coltivarlo lungo tutta una vita professionale a partire dalla sua direzione all’Ente del Turismo, carica acquisita nel 1972.
Entrando in quella funzione automaticamente metti su il sorriso, così è stato in occasione del Settecentesimo per il quale nel 1991 sono stato delegato del Consiglio Federale svizzero. In fondo in quel ruolo il mio compito era quello di dispensare ottimismo. Poi il sorriso mi ha sempre accompagnato internamente nei rapporti con i colleghi quando sono stato ai vertici di Migros, come amministratore delegato, e poi vicepresidente della Direzione generale della Ringier. E poi al Festival dove è sempre stato determinante, perché il Festival è un’impresa e dunque all’interno vigono rigore e severità assoluta, ma con chi ti sta attorno e ti dà il massimo non puoi non sorridere.
Il sorriso è incontro. Pensando al Festival, al dietro le quinte, agli addetti al settore, quali sono gli incontri che l’hanno colpita?
Ho avuto sempre un rapporto molto spontaneo con chi andava a pulire la piazza alle quattro del mattino. Come piccolo segno di amicizia l’ultima sera abbiamo invitato tutti gli operai della Città di Locarno. Poi ho sempre apprezzato gli incontri spontanei, la gente che ti viene incontro in Piazza Grande e con poche parole ti scalda il cuore.
Dunque conta il sorriso ma anche l’attenzione per le persone?
Se devo assumere una persona anche ad alti livelli faccio sempre una cosa (e non ho mai fatto un’eccezione!): vado a mangiare con lui o con lei e osservo. Il modo di parlare, di mangiare certamente, ma soprattutto osservo come tratta il cameriere. E lì so tutto. Mi sono capitate due o tre occasioni in cui ho detto «questo è bravissimo, ha fatto tutti gli assesment però non può trattare un cameriere con quell’arroganza e con quella prepotenza». E non l’ho preso.
Torniamo agli incontri: quelli importanti che l’hanno arricchita, dai quali sono nate amicizie o ci sono state subito delle affinità, quali sono?
È una domanda difficile. Se vado indietro nel tempo penso al barone von Thyssen che mi ha aperto un mondo. Grazie alle sue conoscenze ho incontrato i personaggi più inimmaginabili. Era un’amicizia? Non credo. Era simpatia, per me l’amicizia è qualcosa di più profondo, i legami rimasti dai tempi adolescenziali, due o tre sono le vere amicizie, il resto sono rapporti privilegiati. Ricordo con immenso piacere quello con Flavio Cotti, lui «pipidino», io liberale e bisogna dire che sovente trattava i liberali meglio dei pipidini stessi. Però non bisognava deluderlo. I nostri percorsi professionali si sono incrociati spesso – io ero direttore quando lui era presidente all’ETT, io delegato al Consiglio federale quando lui era Consigliere e poi mi propose di diventare ambasciatore a Roma ma io rifiutai perché ai tempi ero alla Migros. Tra noi c’era un rapporto stretto che da fuori, in parte anche nel mio partito, guardavano con una certa diffidenza. Per me il rapporto con Flavio Cotti era una questione personale, era così e andava accettato.
Volgiamo lo sguardo all’interno del team del Festival. Intanto è vero che si danno tutti del tu mentre Marco Solari è «il Pres» e le si da sempre del lei?
È una mia scelta. Se qualcuno arriva e mi da del tu immediatamente reagisco malissimo, non lo sopporto. Sarà una questione generazionale ma è soprattutto una questione di rispetto. Io non do mai a nessuno del tu, mai. Il tu paternalistico da me non esiste. Cioè: quando io sento che il tu ad un certo punto mi arriva spontaneo allora dico a quella persona «d’ora in poi ci si da del tu». Ma per quella non è sempre facile.
Guardando al suo team e in particolare ai sei direttori artistici che nei suoi 23 anni di Festival hanno contribuito a farlo crescere, è vero che non le piace contornarsi di yes man/woman?
Per me è importante che le persone abbiano qualcosa da dire. Ho avuto intorno a me sempre persone ribelli che mi dicevano la verità in faccia perché la peggior cosa che ti può succedere è avere intorno a te una corte. Non ho mai voluto persone che mi compiacessero perché a quel punto perdi di vista la verità, non cresci più e ti adagi.
Pensando ai tanti ruoli che ha avuto e continuando a porre l’accento sull’importanza della relazioni umane: sono cambiati i codici tra le persone?
Certo, il mondo è cambiato completamente. L’ho visto nel rapporto con gli sponsor. Nello sponsoring le relazioni si basano sul rispetto, sulla fiducia, sulle persone soprattutto. Ricordo ancora quando all’Università volevano insegnarmi che «Strategy comes before structure, structure before people». No Signori! Tutta la mia vita ho imparato che è sempre e solo una questione di persone, è la persona che fa la differenza. Poi per me nelle relazioni conta una certa forma, non sopporto la volgarità, l’insulto, la violenza verbale.
Ma, nella sostanza, come è cambiato il rapporto con gli sponsor?
Una volta prendevi il telefono e dicevi «Caro collega, caro direttore, ho un bellissimo progetto…». Oggi con una nuova generazione di manager che vengono da fuori o hanno studiato all’estero e che non hanno una certa sensibilità politica, una certa conoscenza della storia del Ticino, di come funzionano i delicati equilibri di questa nostra Svizzera, è diventato difficilissimo. In passato ho sempre spiegato agli sponsor che investire nel Festival non era soltanto una questione di marketing ma innanzitutto una questione culturale, investire aveva un’importanza politica (in tedesco c’è una parola molto precisa per questo: Staatspolitisch) perché rafforzava la Svizzera italiana (che veniva da trecento anni di povertà, senza identità e con i confini provvisori) e dunque anche la Confederazione. Oggi i miei argomenti hanno meno fortuna soprattutto quando come la scorsa settimana una segretaria alla quale ho chiesto di passarmi il direttore mi ha chiesto il CV. Lì mi son proprio detto «Marco è il momento di andare». C’è una generazione che vuole un nuovo carnet di indirizzi e di relazioni e qui siamo al tema di Maja Hoffmann.
Cogliamo la palla al balzo: cosa vuole dirci?
Il Festival ha contribuito a dare sostanza al Ticino, a togliergli questo complesso di inferiorità di cui parlavamo. Lascio un Festival che ha raggiunto una dimensione e un’importanza internazionale e che ora ha bisogno di un cambio di paradigma e di una presidente che le sue relazioni se le gioca tra San Francisco, New York, Singapore…Il mondo corre, se restiamo fermi entro due o tre anni questo diventa un festival turistico, al massimo un festival di nicchia. E invece deve ambire a crescere ancora.
Durante la sua presidenza il Festival ha avuto sei direttori artistici. Può darci una definizione per ognuno?
Irene Bignardi è stata un ciclone femminile, ha portato un femminismo di alta classe, nella sua squadra c’erano soltanto donne. Io ero l’unico uomo al Festival. Frédéric Maire era la forza tranquilla, uomo carismatico con grande capacità oratoria. Poi c’è Olivier Père, le gentil provocateur, le sue erano provocazioni intelligentissime, il professore di filosofia prestato alla Berlinale, Carlo Chatrian e infine la ribelle innovativa, Lili Hinstin, che è stata capace di sorprendere con idee nuove. Giona A. Nazzaro invece è il più grande cinefilo che io conosca.
La si associa al Festival ma lei ha sempre avuto un ruolo importante anche negli Eventi Letterari Monte Verità. Che cosa è per lei la letteratura?
Per me la parola è più importante dell’immagine, la letteratura è più importante del film. Il film mi entusiasma, non potrei fare il presidente se non fossi interessato al cinema, ma la letteratura che porta alla solitudine in fondo corrisponde ancora di più al mio carattere. Ho passato una vita a dover far contente le persone e la letteratura rappresenta per me quel luogo in cui ritirarmi con gioia enorme.
I libri li legge in lingua originale?
Sono figlio di tre culture, quella tedesca imparata a scuola, quella italiana da autodidatta e quella francese all’università, e ho l’abitudine a leggere in parallelo. Al momento intorno al letto ci sono una dozzina di libri…
Quindi?
Sono davanti alla biblioteca da disperato! (Ride). Tornando alla domanda iniziale, per i libri è come per i film, devo vederli in lingua originale. La traduzione – se fatta da un uomo di altissima cultura può essere arricchente, pensiamo a Proust tradotto da Raboni, a Montaigne tradotto dalla Garavini o a Shakespeare tradotto da Schlegel. Ma non può sostituire l’originale.
A questo punto esce il Marco Solari che non ti aspetti che con passione cita l’incipit del Don Chisciotte della Mancia «En un lugar de la Mancha…»
Qui c’è dentro tutta l’hispanidad! E questa non si può tradurre.
Una lettura che di recente l’ha affascinata?
In nome della parresia devo dirle che sono le opere di Céline, uomo abominevole ma, linguisticamente parlando, sublime.