«Per me la bellezza sta nell’umanità»

Lorenzo Viotti, direttore musicale della Netherlands Philarmonic Orchestra, è il nuovo testimonial di Bulgari
/ 20.06.2022
di Enrico Parola

Bello, atletico, giovane (è nato 32 anni fa a Losanna), scelto proprio in questi giorni da Bulgari come ambassador delle sue linee di orologi e profumi maschili, direttore d’orchestra. Lorenzo Viotti sa benissimo che in una fantomatica «caccia all’intruso» tutti sceglierebbero l’ultimo elemento, nonostante sia proprio il podio il suo lavoro e la sua vita: è chiamato dalle istituzioni più prestigiose, raccoglie ovazioni tanto nel repertorio sinfonico quanto nella lirica, in primis alla Scala, il tempio mondiale del melodramma.

Poteva essere diversamente, avendo avuto come padre un gigante del podio come Marcello Viotti?
La domanda è lecita, anche perché mamma è violinista e suonava quando ero nella sua pancia: mi sono trovato immerso nella musica prima ancora di nascere. Piccolissimo, vedevo il teatro già come una seconda casa: seguivamo quasi sempre papà, la prima opera cui assistetti fu Simon Boccanegra e mi sorpresi tantissimo nel vedere il cantante che impersonava Paolo, appena morto in scena, camminare tranquillamente dietro il palco: «Ma non eri morto?» gli chiesi quasi in lacrime, suscitando l’ilarità generale. Ero contentissimo quando papà doveva dirigere a Venezia: trascorrevamo lì qualche settimana, con mio fratello giocavo a pallone nei calli, girovagavamo tra i canali alla ricerca delle merende più ghiotte, sempre immersi nel profumo della salsedine. Qualche mattino, come facevamo sempre al mare, andavo con papà a fare immersioni: sveglia alle 5, in barca alle 6, era poetico anche l’odore del neoprene della muta e del metallo delle bombole.

Destino musicale segnato, quindi?
Se considera che mio fratello Alessandro è diventato cornista come mia sorella Milena, e l’altra mia sorella Marina è mezzosoprano…

Sì.
Invece no! La grandezza dei miei genitori è stata quella di non averci mai voluto imporre il futuro che loro potevano magari avere in mente per noi. Quando ho voluto imboccare la via della musica l’ho fatto con la batteria; i miei non erano felicissimi, ma mi hanno supportato. A New York – papà dirigeva al Metropolitan – io e Alessandro, che eravamo fan di 50 Cent, insistemmo perché ci portassero nel Bronx o ad Harlem per comprare catene, vestiti, gioielli tipici e bandane da rapper; eravamo piccoli e non ci rendevamo conto come ci guardassero lì, passeggiando con mia mamma, alta, bionda, bellissima.

Ha continuato a suonare la batteria?
Mai abbandonata. Marina era leader di un gruppo death metal, i Soul Maker, e una volta sostituii il loro batterista davanti a 5mila spettatori; quella musica faceva schifo, lo feci solo per lei: da quando papà era morto non riusciva più a cantare la classica, troppi ricordi e quindi troppo dolore. Poi però è diventata mezzosoprano e l’ho diretta alla Scala nel Roméo etJuliette di Massenet.

Suo padre morì il 16 febbraio 2005 mentre provava la Manon di Massenet a Monaco, lei avrebbe compiuto 15 anni un mese dopo.
Fu un trauma, ovviamente. Rimpiangerò sempre di non aver potuto fare certe esperienze con mio padre; non parlo della musica – paradossalmente la sua morte mi ha reso più libero nel mio percorso, nonostante il cognome che porto sia un costante paragone – ma della vita. Avrei voluto parlare con lui di sport o dei primi innamoramenti: osservando come vivevano lui e mamma, noi quattro figli abbiamo imparato a gustarci la vita, vedevamo come si volevano bene, come amavano tutte le cose belle, dalla musica al buon cibo a un luogo particolare.

Il suo momento di crisi?
Non fu legato alla morte di papà, lo ebbi quando, studente di percussioni a Vienna, non fui ammesso nella classe di direzione. Mi presi un anno sabbatico in cui decisi che mi sarei concesso tutti gli sbagli necessari per capire che cosa volessi davvero fare della mia vita: uscivo cinque giorni la settimana, facevo tardi, relazioni fugaci. Fu un tempo di sbagli, ma non di sballi: ogni giorno trascorrevo sette ore negli archivi della Staatsoper per studiare gli spartiti annotati dai giganti che avevano diretto a Vienna, come Karajan. Più passava il tempo e più capivo che volevo salire sul podio.

Retaggio paterno?
Forse, da piccolino mi affascinava vedere papà che, semplicemente muovendo le mani o facendo certe espressioni col viso, plasmava la musica a suo piacimento. Però mi è impossibile dirlo con sicurezza: come le dicevo, non ho mai sentito su di me aspettative particolari, piuttosto sono stato io a mettermi pressione perché non volevo deludere in nessun modo mia madre, per come aveva tirato avanti la famiglia e per la libertà che aveva continuato a darci. Credo che essere direttori sia un dono: quando ho iniziato a suonare in orchestra – il percussionista è sempre posizionato in fondo, vede il podio da lontano però ha una panoramica completa di tutto l’organico – la relazione che si instaura tra direttore e strumentisti mi ha sempre più affascinato e l’ho trovava sempre più consona alla mia idea di far musica e all’indole che credo sia un po’ quella del leader. Infatti, quando arrivò anche per me la proverbiale opportunità imprevista, mi feci trovare pronto: indisposizione improvvisa del direttore, salgo io sul podio e funziona.

Come fa a funzionare?
Non lo so, anche perché una sera funziona perfettamente a Milano e il giorno dopo a Madrid o Tokyo no. C’è una componente ineffabile e forse indecifrabile: c’è una tecnica direttoriale, ma poi il filo invisibile che tiene legata l’orchestra va tessuto personalmente. Io amo fare riferimenti alla quotidianità anche più prosastica, perché dire «suonate piano, più legato, fate un crescendo qui e un rallentando là» non basta a rendere quel che la musica esprime. Nel Simon Boccanegra, dove Verdi con l’orchestra ricrea miracolosamente il suono e il sapore del mare, mi piace far immaginare la luce fredda e profonda della luna che si specchia nelle acque; altre volte ho fatto l’esempio della pizzeria, col chiacchiericcio degli avventori che si mescola al caldo del forno a legna e alle fragranze delle pizze che i camerieri portano tra i tavoli.

Si dice che le orchestrali non guardano mai così tanto verso il podio come quando c’è su lei; quanto conta e quanto è consapevole della sua bellezza?
Non voglio fare il falso modesto, ma per me la bellezza sta nell’umanità, è un giovane che aiuta un’anziana portandole la borsa della spesa pesante. La musica con la bellezza dei suoni esprime questa bellezza ed è a questo livello che voglio spingere la mia interpretazione. Credo che Bulgari mi abbia scelto per questo: non sono un atleta o un modello con milioni di follower, però posso parlare della bellezza, manifestata anche da un orologio o un profumo, in un modo spero profondo e vero.

Non consideriamo i vantaggi estetici allora, ma lei è considerato anche un grande sportivo.
Snowboard e skateboard, ma più di tutti la boxe: quando vado in una città chiedo se c’è una palestra dove si possa praticare un po’, se fosse possibile nella valigia assieme ai vestiti mi porterei il saccone da allenamento. Amo ballare, una volta l’ho fatto per 19 ore, l’applicazione ha conteggiato 58mila passi… E, fin da piccolo, immersioni e tennis.

E da Svizzero…
Certo, da svizzero dovrei dire Federer e lo ammiro tantissimo, ma devo confessare che il mio idolo tennistico è Nadal.

D’altronde è stato papà ad insegnargli a scegliere liberamente…