Da quando, dagli anni Sessanta del 900 in poi, la cultura femminista occidentale ha raggiunto la sua massima espressione moderna non solo in termini popolari, ma anche accademici, molte sono state le nuove «eroine» succedutesi nella mente di un pubblico sempre più avido di figure carismatiche in cui identificarsi – alla ricerca di «grandi donne» dallo spirito anticonformista che, avendo rinnegato la staticità degli abituali ruoli di moglie e madre, fossero state in grado di prendere in mano le proprie vite ben prima che una nuova «coscienza di genere» rendesse l’impresa meno ardua.
Purtroppo, però, molte delle figure femminili meno note e celebrate del ventesimo secolo sono rimaste inspiegabilmente escluse dalle recenti rivalutazioni di storici e professori, soprattutto nell’ambito dell’intelligentsia mitteleuropea; in tal senso, uno dei personaggi più enigmatici e intriganti con cui la Svizzera abbia contribuito ad arricchire la categoria è senz’altro Aline Valangin, da molti considerata una delle cruciali «protofemministe moderne» di nazionalità elvetica. Nata a Vevey nel 1889, Aline si sarebbe infatti distinta per una visione coraggiosa e libera dell’esistenza, per l’epoca decisamente all’avanguardia; un’attitudine confermata anche dai molteplici ruoli rivestiti da una personalità quantomeno poliedrica – scrittrice e poetessa, pianista, traduttrice, psicanalista, ma, soprattutto, anticonformista di professione.
Un percorso singolare, che ha avuto inizio all’interno di una famiglia dallo spessore culturale tutt’altro che trascurabile. Aline era infatti nipote del ginevrino Élie Ducommun, nel 1902 insignito del Premio Nobel per la pace come direttore dell’International Peace Bureau di Berna, e, al pari del nonno, avrebbe presto intrapreso una strada palesemente diretta a lasciare il segno sulla placida società altoborghese di allora: terminati gli studi al conservatorio di Losanna con l’idea di lavorare come insegnante di pianoforte, avrebbe invece finito per recarsi a Zurigo e divenire paziente e allieva di Carl Gustav Jung. Ma qualsiasi categorizzazione stava evidentemente stretta alla vulcanica Aline, la quale, fin da subito, affiancò all’attività di psicanalista la passione per le lingue e la scrittura, rendendo per chiunque molto arduo il compito di classificare questa ragazza intraprendente e geniale – soprattutto in anni in cui le donne ancora faticavano ad abbandonare il cliché che le vedeva come esclusivamente votate al focolare domestico.
E sebbene anche Aline sarebbe, infine, convolata a giuste nozze, difficilmente il suo matrimonio «aperto» con l’avvocato russo Wladimir Rosenbaum si sarebbe potuto definire come convenzionale; anche perché fu proprio il legame con il marito a permettere alla Valangin di impegnarsi anche sul fronte politico, tanto da essere oggi ricordata soprattutto per la sua costante volontà di aiutare e sostenere dissidenti e oppositori di ogni regime totalitario. Ciò l’avrebbe portata a fare del Ticino – all’epoca già infiammato dalla pacifica «ribellione artistica» del Monte Verità, ma anche dalla comune Fontana Martina, fondata da Fritz Jordi a Ronco sopra Ascona – il suo vero «luogo dell’anima»; infatti, grazie alla posizione strategica (in Valle Onsernone, a poca distanza dal confine italiano), la grande casa di vacanza acquistata nel 1929 da lei e Wladimir sarebbe divenuta rifugio per innumerevoli artisti e intellettuali perseguitati dalle dittature fascista e nazista – tra gli altri, Elias Canetti, Hans Harp, Max Ernst e Ignazio Silone.
E mentre, nei mesi estivi, il «Castello della Barca» (questo il nome dell’antico palazzo di Comologno) veniva popolato da innumerevoli gatti randagi ed esuli in cerca di pace, nel villaggio la Valangin trovò una privata forma di felicità nel praticare la tecnica della tessitura al telaio; e proprio laggiù avrebbe ambientato i suoi romanzi e racconti, tra cui Die Bargada. Eine Chronik (1940) e Dorf an der Grenze, capitoli di una saga paesana incentrata su una realtà rurale a lei ormai cara. Tuttavia, il secondo volume non sarebbe stato pubblicato che nel 1982, appena pochi anni prima della scomparsa dell’autrice; e la reticenza degli editori si può forse ricondurre alla tematica principale del libro, ovvero la politica d’asilo impiegata dalla Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale, dalla Valangin considerata come una scaltra soluzione «di comodo» dalle dubbie basi etiche.
La fondamentale forma di intima libertà personale strenuamente difesa da Aline si sarebbe riflessa anche nella sua concezione dei legami famigliari: nonostante il divorzio da Rosenbaum nel 1940, e un secondo matrimonio di breve durata con il compositore Wladimir Vogel, rimase sempre profondamente legata al primo marito – il quale, radiato dal foro a causa del proprio antifascismo, si era rifatto una vita (e più di una famiglia) come antiquario ad Ascona. Determinata a rimanergli accanto, Aline avrebbe continuato a risiedere in quella che, del resto, sembra essere un’area favorevole all’espressione di anime femminili «controcorrente», come confermato dalla presenza della scrittrice Eveline Hasler, appassionata portavoce di figure ribelli, nonché autrice di un romanzo sulla stessa Valangin (Aline und die Erfindung der Liebe, 2000).
Fu proprio ad Ascona che l’ultranovantenne Aline si spense nel 1986, dopo una vita piena e, soprattutto, priva di veri rimpianti. Ma ciò che oggi lascia un certo amaro in bocca a chiunque abbia la fortuna di imbattersi in questo incredibile personaggio è il fatto che alla Valangin non sia stata concessa la medesima rivalutazione e riscoperta postuma di cui hanno invece beneficiato molte donne intellettualmente coraggiose, il cui nome è oggi noto a livello internazionale; una mancanza a cui, fortunatamente, sopperisce il Fondo Aline Valangin, custodito presso la Biblioteca Cantonale di Lugano a costante ricordo di una donna anticonvenzionale e del suo (altrettanto anticonvenzionale) legame con il territorio ticinese.