Per il cinema è tempo di nuove storie e nuova poesia

A Cannes si è chiusa la più bella edizione di sempre a riprova che la settima arte non è morta, tutt’altro
/ 05.06.2023
di Nicola Mazzi

La pioggia della prima settimana, seppur fastidiosa, non ha annacquato minimamente l’alta qualità dell’edizione di quest’anno. Lo testimoniano le numerose recensioni positive dei film visti, la sempre grande affluenza nelle sale e l’entusiasmo degli spettatori. L’evento festivaliero più importante al mondo si è confermato tale, anzi, se possibile, è ancora cresciuto di livello. Le cifre del Marché du Film con i suoi 14’700 accreditati che hanno frequentato il Palais e i dintorni durante la rassegna, vendendo e acquistando prodotti cinematografici, ne sono la prova. Tant’è che il nuovo direttore Guillaume Esmiol si è detto soddisfatto delle migliorie organizzative realizzate per questa edizione.

E se gli affari sono andati bene, anche il lato glamour ha fatto la sua parte con la classica montées des marches che ha visto riunire tutto lo star system mondiale: da Carla Bruni a The Weeknd, passando per le intramontabili Catherine Deneuve (a cui era dedicato il poster), Naomi Campbell, Johnny Depp, Micheal Douglas e Leonardo Di Caprio, per citarne che alcuni. Non è mancato davvero nessuno dal 16 al 27 di maggio a Cannes. E il cinema? Alla fine, dal duello USA-Francia in concorso (v. «Azione» del 15 maggio) l’ha spuntata il Paese organizzatore, anche se l’opera di Martin Scorsese, più dell’ultimo Indiana Jones, è destinata a restare nella storia della settima arte.

Come anticipato si sono visti davvero dei grandi film – che stanno già arrivando in questi giorni nei cinema o saranno in programma nei prossimi mesi – premiati dalla giuria, presieduta dal due volte vincitore a Cannes Ruben Östlund, con giudizio e occhio accorto. A cominciare dalla Palma d’Oro (solo la terza nella storia di Cannes a una donna) Anatomie d’une chute della francese Justine Triet; un legal thriller familiare che scava nei rapporti umani con maestria e sensibilità, usando uno stile quasi documentaristico. Per continuare con due altri film importanti: The Zone of Interest di Jonathan Glazer (che ha vinto il Gran Prix) e Fallen Leaves di Aki Kaurismaki (che ha ottenuto il premio della Giuria; v. «Azione» del 30 maggio. Il film di Glazer è davvero un gioiello di quelli difficili da scordare perché guarda l’olocausto da una prospettiva originale, quella di Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz: non osservato all’interno del campo a dare ordini e a uccidere ebrei, ma filmato nella tranquillità familiare, mentre fa un bagno al fiume e gioca con i bambini in giardino. Sullo sfondo, al di là del muro di casa, c’è la ciminiera dalla quale esce, in continuazione, il fumo sinistro. Il tutto senza vedere mai un prigioniero o un’esecuzione. Bastano le urla sentite in lontananza e le musiche disturbanti a ricreare quel mondo di devastazione, purtroppo già noto.

Gli altri meritati premi sono andati al pantagruelico La Passion de Dodin Bouffant di Tran Anh Hung (miglior regia); a Monster (ispirato a Rashomon di Kurosawa) di Kore-eda Hirokazu per la sceneggiatura; a Merve Dizdar (attrice) per About Dry Grasses di Nuri Bilge Ceylan; e a Koji Yakusho (attore) per Perfect Days di Wim Wenders.

Proprio partendo da Wim Wenders vogliamo accennare anche a un’interessante iniziativa che si è svolta durante la kermesse. Il regista tedesco nel 1982 presentò sulla Croisette Chambre 666, un documentario nel quale invitò diversi registi a rispondere alla domanda: Qual è il futuro del cinema? Un’operazione che ha rifatto 40 anni dopo Lubna Playoust con il suo Chambre 999 presentato quest’anno, al quale è seguito un dibattito. La giovane autrice ha iniziato il film interrogando lo stesso Wenders. «Il cinema, visto come arte, sta scomparendo a causa della rivoluzione digitale. Solo il mito dello storytelling resiste, anche se si sta modificando» ha affermato l’autore de Il cielo sopra Berlino.

Da parte sua Audrey Diwan (presidente della Semaine de la Critique) ha toccato un altro tasto, quello della velocità e della durata: «I nostri ragazzi non sono più abituati alla lunghezza di un film, la loro attenzione dura il tempo di un reel, quelle minuscole storie di pochi secondi. E il cinema dovrà fare i conti con questi cambiamenti epocali».

Più ottimista Arnaud Desplechin: «Da sempre il cinema cambia e si evolve e anche questa volta morirà per rinascere in una nuova forma». Un ritorno alle origini e un distacco dall’industria è una proposta che altri, come Olivier Assayas, fanno: «Il cinema sta cambiando in una forma che non capiamo, probabilmente è giunto il momento di tornare ai piccoli budget e alla massima libertà artistica, come si faceva al tempo della Nouvelle Vague». Sulla stessa lunghezza d’onda la canadese Monia Chokri per la quale la soluzione per un nuovo cinema è quella di «sperimentare con pochi soldi».

Più articolata la risposta di Alice Rohrwacher: «In un’epoca in cui domina l’individualismo, forse la risposta del cinema e quindi di un rito sociale e collettivo può essere quella vincente. Non credo sia il tempo del funerale, ma di nuove storie, nuova poesia e di perdere il controllo seguendo appunto un rituale collettivo».

Parole ampliate anche dal regista Albert Serra: «Oltre per la visione collettiva è importante guardare un film su un grande schermo per valorizzare i dettagli e la tecnica cinematografica, insomma la qualità di un’opera. Tutti aspetti che un telefonino non potrà mai restituire appieno».

Visioni diverse e complementari di chi gira un film nel 2023. E sono ancora parecchi, per fortuna. E questo ci fa dire, parafrasando un noto film: «Le lacrime nella pioggia non andranno perdute nel tempo. Non è ancora il tempo di morire».