Era un giornalista importante della televisione svizzero tedesca SF: qualcuno tra i nostri lettori probabilmente se lo ricorderà quale conduttore di trasmissioni come Arena, Quer o Schweiz Aktuell. Poi, nel 2007, sulla soglia dei quarant’anni, la svolta: Patrick Rohr decide di lasciare tutto (la TV, Zurigo e la Svizzera) e parte in bicicletta, destinazione Amsterdam. Da un lato voleva mettersi alla prova («Se riesco a compiere questo viaggio, sono certo che riuscirò a realizzare altre imprese nella mia vita!»); dall’altro c’è il desiderio di realizzare il suo sogno d’adolescente: diventare fotografo. In Olandese Rohr segue una formazione di documentarista-ritrattista, subito dopo dà sfogo a un’altra sua passione, quella per i viaggi. Sceglie tuttavia mete che nessun turista si sognerebbe mai di considerare, dai nomi tristemente noti: l’Ucraina devastata dalla guerra e Cernobyl’; la Bosnia e Srebrenica, lo Zimbabwe distrutto dall’AIDS o, ancora, l’Uganda dove gli omosessuali rischiano fino a 15 anni di galera.
È evidente il suo intento di dar voce a chi voce non ce l’ha affinché non ci si dimentichi di loro, di tornare a occuparsi di persone ormai sparite dalle cronache, ma che continuano a subire le conseguenze degli accadimenti «grazie» ai quali finirono a suo tempo sotto i riflettori dei mass media. Rohr non ha però dimenticato la sua vecchia professione di giornalista: prima di realizzare un ritratto di quelli che chiama «Fighters» (in contesti difficili combattono una sorte avversa), egli si documenta e soprattutto stabilisce un contatto umano con i suoi futuri soggetti. Dietro ogni foto, insomma, c’è una storia, un vissuto tragico: «Nelle mie trasmissioni televisive ho sempre cercato di avvicinarmi alle persone, di scoprire qualcosa della loro personalità prima di portarle davanti alle telecamere. È un atteggiamento che mantengo anche nella mia attività di fotografo: con le persone che finiscono nel mio obiettivo sviluppo spesso un rapporto di intimità personale».
Rohr ascolta il dramma di chi, sfidando i divieti, è tornato a vivere nell’area contaminata di Cernobyl’; sono soprattutto donne troppo anziane e sole per pensare di ricostruirsi altrove una nuova vita, e che preferiscono affrontare la radioattività piuttosto che vedersi sradicate dall’ambiente in cui hanno trascorso un’intera esistenza. Collaboratore di diverse associazioni caritatevoli, nello Zimbabwe Rohr ha svolto il suo reportage assistendo al lavoro e all’opera della «Ruedi Lüthy Foundation», dal nome del medico svizzero specialista in malattie infettive, attivo nel Paese africano dal 2003 e che da allora si è preso cura di oltre seimila pazienti. Rohr ne ha conosciuti alcuni, è entrato nelle loro case per rendersi conto delle condizioni in cui vivono e solo dopo questa ricerca d’empatia ha realizzato dei ritratti in cui i malati di AIDS mantengono integra la loro dignità.
Pur operando in contesti non certo facili, Patrick Rohr usa talvolta l’ironia: è il caso del giovane ucraino che ha deciso di lottare per la libertà del suo Paese: esile e minuto, lo sguardo non certo feroce, Rohr lo ritrae a casa sua, seduto davanti al poster di Mike Tyson. Il fotografo racconta poi un episodio divertente: in Giappone, dalle parti di Fukushima dove le radiazioni si mantengono tutt’oggi altissime, ha incontrato un signore con l’hobby della chitarra che gli ha suonato un brano dei Gotthard…
Quella attualmente in corso al Canvetto Luganese è la prima mostra svizzera di Patrick Rohr, coraggioso testimone della nostra epoca e delle sue miserie.
Informazioni
http://cultura.canvettoluganese.ch/