Per cinefili e non

Da Tarantino ad Almodóvar, passando per Dolan e Malick: il livello dei film presenti è piuttosto alto
/ 27.05.2019
di Nicola Mazzi

La 72esima edizione del Festival di Cannes, appena conclusasi, è stata notevole, contraddistinta da numerosi film di qualità, da registi già affermati e da alcune giovani sorprese. In generale, il livello è stato alto sia per quanto riguarda lo spettacolo – che ha avuto il suo apice con l’arrivo sul tappeto rosso di Tarantino, Brad Pitt e Leonardo Di Caprio – sia per la qualità dei lavori proposti nei vari concorsi e in particolare in quello principale. Alcuni film sono già usciti in diversi Paesi e, grazie anche alla spinta del festival, stanno funzionando molto bene al botteghino: Dolore e Gloria di Pedro Almodóvar e I morti non muoiono di Jim Jarmusch su tutti.

Oltre ai premi ufficiali che sono stati attribuiti sabato dalla giuria diretta dal regista Alejandro González Iñárritu, stilo una classifica personale. Se la scorsa settimana avevo segnalato, tra gli altri, il bel francese Les Misérables, nella seconda settimana della rassegna si sono visti i film migliori. A cominciare da quell’opera (perché le tre ore la rendono una vera e propria opera) che è A Hidden Life di Terrence Malick. Se negli ultimi film il regista americano aveva lavorato solo sulla forma lasciando perdere quasi del tutto il contenuto, in questo film le sue danze con la camera e la voce off che suggerisce sentimenti e sensazioni, sono accompagnate da un messaggio forte e concreto, che tra l’altro si ispira a una vicenda realmente accaduta. Siamo in Austria, durante la Seconda guerra mondiale, e in un piccolo paese di contadini Franz Jägerstätter rifiuta di fare il saluto nazista e di arruolarsi nell’esercito di Hitler. Viene quindi imprigionato e poi ucciso. Un film che parla di vita e di morte, di coraggio e di speranza, delle cose semplici ma allo stesso tempo profonde. È un volo altissimo quello di Malick in A Hidden Life e quando si va così in alto c’è sempre il rischio di cadere e farsi male, ma lui riesce ogni volta a trovare il giusto equilibrio e la giusta leggerezza per volare lassù dove solo lui riesce.

Una menzione speciale va allo straordinario Parasite del coreano Bong Joon-ho. Affidandosi all’ironia l’autore mette in scena il conflitto di classe. I protagonisti sono i membri della famiglia Ki-taek: tutti disoccupati vivacchiano di espedienti giornalieri, facendo capo a un’arguzia e a un’intelligenza che solo chi si trova in quella condizione possiede. Uno alla volta e in modo astuto riescono a farsi assumere dalla famiglia Park: ricchi borghesi che abitano in una villa ipermoderna. Una narrazione basata sui pregi e i difetti delle due famiglie (in rappresentanza di due ceti sociali agli antipodi) e che fa pensare a cose serie ma usando un tono leggero e divertente.

Altre doverose segnalazioni è giusto farle per il rumeno The Whistlers, a conferma del fatto che quella cinematografia resta tra le più interessanti in Europa. Un poliziesco che strizza l’occhio al genere e ai classici del cinema, condito con una buona spruzzata di divertimento. Anche l’ultimo lavoro di Céline Sciamma – seppur adatto a un pubblico più cinefilo – è di buon livello. La ricostruzione di un amore saffico tra una pittrice e la sua musa nel 1770 è un gioiello di sguardi e di energia erotica sotterranea. Un accenno va fatto anche all’austriaca Jessica Hausner che ha realizzato un film curioso, ipercontrollato nei colori, nei movimenti e nelle musiche, sulle mutazioni genetiche.

E Tarantino? Beh, questo nuovo film (il nono) che ha scatenato l’inferno mediatico, è la conferma delle sue qualità e dei suoi difetti. Ha giocato – e lo ha fatto bene grazie anche al più grande cast mai avuto a disposizione (basti pensare che oltre a DiCaprio e Pitt ci sono Al Pacino, Margot Robbie, Dakota Fenning e il compianto Luke Perry). Ha messo in scena i suoi piaceri: dagli spaghetti western alle battute fulminanti, passando per una miriade di citazioni e senza dimenticare il sangue. Ha voluto ricordare, a modo suo, un tragico evento e cioè la morte di Sharon Tate per mano di Charles Manson. Ma alla fine, dentro questo bellissimo parco giochi, resta sempre un po’ poco. E questa volta, rispetto alla compattezza di altre sue opere come Le Iene o Jackie Brown, C’era una volta a… Hollywood risulta anche a tratti lento e slegato.

Hanno convinto meno alcuni nomi attesi. Ken Loach ha scavato nel tema del lavoro precario, perdendo un poco di mordente rispetto ai suoi lavori precedenti. Da parte sua l’enfant prodige del cinema mondiale Xavier Dolan ha fatto – per sua stessa ammissione – un film di transizione sull’amicizia e l’amore omosessuale che non segna un grande passo avanti rispetto ai precedenti lavori. Neppure i fratelli Dardenne, che a Cannes sono di casa, hanno realizzato il loro miglior lavoro a causa di un tema difficile come quello della radicalizzazione di un giovane musulmano, che alla fine non viene risolto in modo convincente.

Non molto riuscito neppure Il traditore di Marco Bellocchio, sulla figura di Tommaso Buscetta. La ricostruzione della vita di questo famoso pentito di mafia è piuttosto didascalica e, per chi conosce quella vicenda, non aggiunge nulla di nuovo. Da elogiare, comunque, l’intensa prova di Pierfrancesco Favino e di tutto il cast.