Era lo scrittore della gentilezza, quello che anche quando alzava i toni (e non aveva paura di farlo) non perdeva mai di credibilità, colui che quando lo si accusava di essere un traditore, riusciva a girare tutto in proprio favore, trasformando l’insulto in un complimento. Lo scorso 28 dicembre se ne è andato a 79 anni Amos Oz, e di nuovo, come era accaduto per Philip Roth qualche mese fa, abbiamo constatato come i «saggi» di Stoccolma si siano lasciati scappare l’opportunità di premiare un uomo che è stato senza dubbio un grande scrittore, ma che, scrivendo, ha raccontato anche il tormento che affligge il suo Paese da oltre 80 anni.
Amos Oz però, non si è «limitato» al suo ruolo di instancabile narratore, ma ha vissuto Israele fino in fondo, trasferendosi a un certo punto in un kibbutz, partecipando alle guerre dei Sei Giorni e del Kippur, fondando il movimento Peace Now e non smettendo insomma mai di essere un cittadino impegnato fino in fondo, anche quando si trattava di prendere delle posizioni scomode. Ad affiancarlo nel percorso letterario, politico e, in qualche modo, anche personale, due altri grandi padri della letteratura israeliana contemporanea, entrambi vittime di una pace che negli anni è diventata più distante: Abraham B. Yehoshua e David Grossman.
Ma torniamo a lui, a quell’Oz così lontano per una vita intera da scandali, frivolezze e mondanità, come testimoniava la scelta di vivere vicino alle pietre del deserto di Arad e forse anche quel suo look un po’ da pioniere, memore degli anni trascorsi in kibbutz, quando ancora si chiamava Klausner e veniva identificato con una famiglia all’interno della quale si era consumata quella che Oz stesso chiamava la «tragedia famigliare», ossia il suicidio della madre.
Afflitta dal mal di vivere, la brillante Fania Klausner aveva abdicato alla vita, rinunciando così anche a tutto l’amore che avrebbe potuto dare al figlio. Lo struggente dolore di Amos Oz, guardando oggi a un’opera letteraria che può dirsi conclusa, si costruisce in un percorso letterario fatto di romanzi densi, ma che più che mattoni, ricordano pietre miliari. A partire da quel Michael Mio, che ne decretò il successo alla fine degli anni Sessanta, passando per l’oblomoviano Fima e ancora Conoscere una donna o La scatola nera Oz aveva cominciato a costruire la più grande delle sue opere, quella capace di abbracciare la storia di un uomo (lui stesso), di una donna (la madre) e al contempo quella della sua nazione e della sua identità più profonda. Una storia di amore e di tenebre è senza dubbio il capolavoro di Amos Oz, una vicenda di lacrime e sangue la cui stesura, ci raccontò lo scrittore stesso una decina di anni or sono in occasione di una visita a Zurigo, fu possibile solamente quando egli ebbe raggiunto l’età che avevano i genitori all’epoca dei fatti. Solo allora egli riuscì infatti ad adottare quello sguardo indulgente necessario al perdono e dunque alla narrazione.
Del piccolo e curioso semi-orfano Klausner (Amos cambiò il proprio cognome in Oz che in ebraico significa «forza», per distanziarsi dal padre, vedovo allo sbando con tendenze di destra), che sfiniva gli adulti con domande spesso inopportune e fuori luogo per la sua età (Oz diceva: «darei molto per incontrarlo ora, per potere giocare con lui a quei giochi di immaginazione in cui sapeva immergersi per ore»), rimasero per tutta la vita gli occhi, quegli occhi verdi e luminosi, sempre pronti a infiammarsi di entusiasmo, ma anche di curiosità, desiderosi di conoscere il prossimo, e soprattutto le donne.
Le donne sono sempre state protagoniste indiscusse dei romanzi di Oz (ed è anche molto bello il fatto che a realizzare Sognare è vivere, il film tratto da Una storia di amore e di tenebre sia stata una donna, la brava Natalie Portman), e sarà forse anche quel suo sguardo, speciale e attento, a mancare al suo pubblico e al mondo intero. Come ha ricordato la figlia Fania Oz-Salzberger durante la cerimonia commemorativa, «i giusti di solito muoiono di sabato, ma gli scrittori dovrebbero morire tutti di venerdì, così che tutti, nella quiete di Shabbath, abbiano modo di leggere le loro opere».