Sir Paul McCartney: 76 anni e non sentirli


Paul ha ancora molto da dire

Gli esercizi di stile di Paul McCartney: l’ex Beatle schizza in testa alle classifiche con un album riuscito, sebbene non immune da inquietanti tendenze commerciali
/ 12.11.2018
di Benedicta Froelich

Quando si è ormai varcata la soglia della terza età, e ci si ritrova, già da decenni, a essere universalmente considerati vere leggende viventi del pop-rock, i rischi di rimettersi in gioco con una nuova opera possono essere, paradossalmente, ancor più insidiosi che per una giovane promessa: le aspettative di un pubblico ben più che intergenerazionale, e la facilità a condannare un artista come ormai «datato», finiscono spesso per spingere i «grandi vecchi» a produrre opere senza infamia e senza lode, figlie del rassicurante espediente dell’abitudine.

Eppure, in barba a chi pensava che, dopo quasi sessant’anni di carriera, il baronetto Sir Paul non avesse più molto da dire, ecco che Macca, come lo chiamano i suoi fan, stupisce tutti con un ennesimo disco, nel quale sembra apparire di colpo come il ragazzo di un tempo, con tutta l’energia e l’entusiasmo della giovinezza. Certo, il piacente ribelle anni ’60 che inneggiava a una possibile revolution si è imborghesito, e il suo finto accento «posh» suona un po’ ridicolo a chi ancora ricorda l’aria verace dei Beatles degli esordi; eppure, in questo nuovo Egypt Station Paul sembra scendere dal piedistallo per prodursi in una complessa combinazione tra brani spensierati e quasi goliardici, e gli abituali elementi del suo songwriting malinconico e raffinato.

Per rendersene conto basta, in effetti, il primo singolo estratto dall’album, l’irresistibile Come On to Me: eppure, McCartney si spinge ancora più in là con altri brani orecchiabili, come l’ammiccante e «scandaloso» Fuh You, il cui titolo (in barba alle liriche ufficiali, attente a legittimarne il senso tramite un banale trucco fonetico) rappresenta un palese quanto volgarotto doppio senso. E sebbene diverta vedere Paul prodursi in un tentativo di musica «trendy» alla tenera età di 76 anni, resta una certa amarezza nel constatare come un ex Beatle avverta la necessità di strizzare tanto l’occhio al pop più mainstream e banale.

D’altra parte, ciò che più salta agli occhi in Egypt Station è il recupero delle sonorità scanzonate e assai radio friendly dei tempi degli Wings, la band capitanata da Paul insieme alla moglie Linda negli anni ’70; e il vero limite dell’album risiede proprio nel fatto che parecchi brani provocano, nell’ascoltatore più smaliziato, un marcato senso di déjà-vu. Infatti, se l’agrodolce Confidante appare pressoché indistinguibile da certe ballate romantiche incise da Paul negli anni ’80-’90, nel caso di Who Cares ci si ritrova davanti a riff di chitarra che suonano come un vero e proprio plagio di certe hit di Robert Palmer dello stesso periodo – rimarcando come McCartney stia facendo del suo meglio per accattivarsi il pubblico più giovane e, forse, meno raffinato.

Per fortuna, il CD si avventura anche in sperimentazioni di carattere meno commerciale, che a tratti richiamano i migliori exploit acustici firmati dai Beatles – a partire dalla metafisica traccia di apertura, dall’emblematico titolo di Opening Station, quasi un possibile outtake degli album sperimentali tanto cari ai ragazzi di Liverpool nel decennio dei Seventies; anche se ciò, purtroppo, spinge Paul a tentare anche pezzi scoraggianti quali l’insulso Back in Brazil e, soprattutto, il confuso e logorroico Despite Repeated Warnings, didattica canzone di protesta dalle fallimentari velleità art-rock.

Per fortuna, quando torna a concentrarsi sui sentimenti, McCartney ritrova la sagacia di un tempo: se, con i suoi languidi passaggi di chitarra, Happy With You ricorda da vicino le suggestioni dell’indimenticato White Album, la toccante I Don’t Know potrebbe essere tratta direttamente da un classico quale Let It Be, con cui condivide una certa, trattenuta disperazione, stemperata dal senso di rassegnata fatalità che ne caratterizza la melodia. A sua volta, la riflessiva introspezione del delicato Hand in Hand, forse uno dei brani migliori del CD, non ha niente da invidiare alle più riuscite ballate composte dal Paul solista.

Simili elementi hanno indotto molti a salutare Egypt Station come il miglior album di Macca dai tempi dell’eccellente Flaming Pie (1997): sebbene ogni suo sforzo non possa che ricordare agli ascoltatori un’innegabile quanto amara verità – ovvero che, a differenza del compianto John Lennon, il buon Paul non è mai del tutto riuscito a riprodurre, nel proprio lavoro solista, i fasti dell’inarrivabile epoca dei «Fab Four», finendo per subordinare un’indiscussa maestria musicale al desiderio di compiacere il pubblico con sonorità un po’ troppo accattivanti.

Tuttavia, il solo fatto che, all’alba del 2018, McCartney sia ancora in grado di sfornare un disco di livello più che buono (e di condurlo addirittura in cima alle chart) non può che scaldare il cuore a chiunque ricordi con affetto anche solo un passaggio di una qualsiasi canzone firmata dai Beatles; e dopotutto, nella lunga vita di Sir Paul ci sono state abbastanza canzoni indimenticabili da potergli oggi concedere di indugiare, infine, in un poco di sano divertimento.