Negli ultimi anni, grazie anche all’interesse dei media, sono finalmente stati portati all’attenzione del pubblico internazionale nomi sovente misconosciuti: quelli di tanti eroi dimenticati, responsabili della salvezza di migliaia di ebrei e altre minoranze perseguitate dal regime nazista durante la Seconda guerra mondiale. Una salvezza spesso pagata a caro prezzo, dal momento che questi individui coraggiosi rischiarono tutto pur di rimanere fedeli ai propri ideali. Anche la neutrale Svizzera avrebbe offerto al mondo prove di grandissima integrità morale, come nel caso di Paul Grüninger, un nativo di San Gallo oggi incluso nella lista dei «Giusti tra le nazioni» stilata dallo Yad Vashem, l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoah.
Oltre all’eterna gratitudine che la storia gli ha tributato, rimane, a imperitura memoria dello «Schindler svizzero», la Fondazione Paul Grüninger
Paul era nato nel 1891, e dopo una parentesi come insegnante (e perfino calciatore, cofautore della vittoria dell’SC Brühl St Gallen ai Campionati Svizzeri del 1915), decise di diventare servitore dello Stato ed entrare così in polizia. Nel 1925, il Tenente Grüninger era già stato nominato comandante; e da quel momento in poi, la sua vita avrebbe preso una direzione apparentemente tranquilla e quasi banale – sposato e padre di due figlie, Paul era rispettato dai colleghi, pur non apparendo come un personaggio particolarmente degno di nota; e forse fu proprio questo a rendere le sue azioni ancora più straordinarie quando, con l’inizio delle ostilità che precedettero lo scoppio della Seconda guerra mondiale, la situazione sul confine svizzero si fece molto difficile e controversa.
Infatti, benché la Confederazione fosse l’obiettivo più ovvio per i molti ebrei in fuga dalle sempre più draconiane leggi razziali entrate in vigore in Italia e Germania, dopo l’annessione dell’Austria da parte di Hitler, nel marzo 1938, venne presa la decisione di inasprire le procedure d’ingresso al confine; dall’aprile di quell’anno, ogni rifugiato che desiderasse passare in Svizzera dalla vicina Austria doveva essere munito di un valido visto, mentre i passaporti di ogni cittadino ebreo residente nel Reich avrebbero recato un famigerato timbro distintivo. Tuttavia, con lo scoppio della guerra e l’inasprirsi delle atrocità perpetrate contro le minoranze ebraiche, sempre più profughi avrebbero tentato di entrare in Svizzera clandestinamente; e il Canton San Gallo si trovò confrontato a un flusso costante di fuoriusciti ebrei, destinati a essere respinti dalle guardie di confine, spesso le prime a rimanere sconvolte dall’ingrato compito assegnato loro, come molti diari d’epoca attestano.
Tra coloro la cui vita venne indelebilmente segnata da tali ordini vi fu proprio il giovane capitano di polizia del canton San Gallo, Paul Grüninger. Nell’agosto del 1938, pochi mesi dopo l’entrata in vigore dei visti d’ingresso, Grüninger prese la parola durante la conferenza dei direttori di polizia cantonali, dichiarando che riteneva eticamente inconcepibile vietare l’entrata ai profughi provenienti dal resto d’Europa; nonostante ciò, la Confederazione decise infine di negare l’ingresso nel Paese a qualsiasi rifugiato privo di visto, e Paul si ritrovò in una posizione assai poco invidiabile – lacerato tra quanto dettato dalla propria coscienza, istintivamente contraria a disposizioni da lui considerate come inumane, e il senso di dovere del poliziotto che aveva giurato di rispettare le direttive del proprio Paese.
Non ci volle molto perché Grüninger facesse la sua scelta, mettendo a rischio ben più che la semplice carriera. Tra l’agosto del 1938 e la primavera del ’39, avrebbe di fatto piegato la legge ai propri principi, falsificando innumerevoli visti d’ingresso (così da farli apparire precedenti alla chiusura dei confini), oltre ad accettare senza alcun reale controllo documenti palesemente contraffatti. Non solo: collaborando con reti sotterranee di aiuto ai profughi e con l’Opera ebraica di assistenza ai rifugiati di San Gallo, Paul avrebbe procurato visti ai parenti di coloro che erano sfollati in Svizzera, e tentato di rintracciare chi era già detenuto a Dachau. In questo modo, si stima che abbia salvato dalla deportazione nei campi fino a 3000 profughi ebrei – una cifra impressionante, soprattutto considerando le condizioni precarie in cui Grüninger e i suoi associati operavano.
Purtroppo, la situazione era destinata a precipitare: grazie a una soffiata, le attività clandestine di Paul vennero scoperte, e nel marzo del 1939, si ritrovò di colpo disoccupato, senza alcuna spiegazione da parte dei suoi superiori; venne inoltre condannato a pagare una multa di 300 franchi per falsificazione di documenti, accusa che, peraltro, non volle negare. Privato perfino della propria pensione, il comandante di polizia sparì con umiltà dalla scena. Non avrebbe mai più avuto un impiego fisso.
Ci vollero anni prima che la storia di Paul Grüninger divenisse nota al grande pubblico: ma infine, pochi mesi prima della sua morte, avvenuta nel 1972, lo Yad Vashem gli conferì il titolo di «Giusto tra le nazioni» (a oggi, sono una quarantina le persone di nazionalità svizzera incluse in questa lista). Eppure, fu solo negli anni ’90, in seguito alla pubblicazione di un libro inchiesta firmato da Stefan Keller, che Paul venne infine esonerato da ogni accusa formale mossagli dalla Confederazione: i suoi eredi, che tanto avevano sofferto per la caduta in disgrazia del capofamiglia, avrebbero ricevuto un risarcimento di oltre un milione di franchi.
Oggi, oltre all’eterna gratitudine che la storia gli ha tributato, rimane, a imperitura memoria dello «Schindler svizzero», la Fondazione Paul Grüninger, con sede, naturalmente, a San Gallo. Ma forse, al di là di film, documentari e toponimi in suo onore, il simbolo più autentico e sincero dell’eredità di Paul risiede in queste parole, preservate in uno scritto autografo conservato alla biblioteca cantonale della sua città natale: «…Si trattava di salvare persone la cui vita era minacciata. In tali circostanze, come avrei potuto preoccuparmi di mera burocrazia e numeri?»