Venivano ambedue da antiche regioni dell’ex Impero asburgico. Paul Celan, uno dei più grandi poeti di lingua tedesca del Novecento, era nato nel novembre del 1920 a Czernowitz, capitale della Bucovina annessa dopo la Grande Guerra alla Romania. Peter Szondi, sommo critico letterario e filologo, di nove anni più giovane, era originario di Budapest. Su di loro pesava il tragico destino degli ebrei. Celan riuscì a sfuggire alla deportazione ma perse i genitori catturati dai nazisti. Anche Szondi si salvò e fuggì in Svizzera dopo essere stato con tutta la famiglia nel lager di Bergen-Belsen. Più tardi, naturalizzato tedesco, insegnò all’università di Berlino scienza della letteratura e comparatistica, mentre Celan fin dal 1948 aveva scelto Parigi come nuova patria, dove non riuscì però a integrarsi. In realtà tutta la sua vita fu una vigile agonia, un preludio alla fatale discesa agli inferi, il tentativo inesausto di rimarginare oltre il tempo i traumi e le lacerazioni della sua gente ebraica. E i luoghi del delirio personale – come la capitale francese – sono stretti in una gelida morsa che rattrappisce gesti e speranze.
Nell’aprile del 1959 lo studioso scrisse un paio di righe al «signor Celan» portandogli i saluti di comuni amici e augurandosi di poterlo conoscere personalmente. Fu un piacere reciproco e iniziò così anche una corrispondenza durata fino al 1970, anno del suicidio del poeta che in preda ad un’ennesima crisi mentale si gettò nella Senna dal ponte Mirabeau. Nulla o quasi del loro problematico destino emerge tuttavia dallo scambio epistolare, fra lettere, cartoline, telegrammi che l’editore Neri Pozza propone ora nel volume tradotto da Luca Guerreschi Tra l’oro e l’oblio a cura di Christoph König. Ma molto racconta invece l’amplissimo commento che riporta anche lettere della moglie del poeta, la pittrice Gisèle Lestrange.
Ben presto la gentilezza e l’ammirazione, specie da parte di Szondi, si trasformano in un sentimento di calorosa partecipazione. Fa da tramite nel luglio del 1959 fra l’amico e il filosofo Adorno che ne ammira l’opera, pur convinto com’era che dopo Auschwitz non si potesse più scrivere poesia. E si congratula vivamente per il prestigioso premio letterario Georg-Büchner assegnato a Celan dell’ottobre 1960. Elogia la sua versione dei Sonetti di Shakespeare e lo invita a più riprese a Berlino per una lettura nel suo seminario all’università. Talvolta i due si scambiano brevi messaggi per vedersi, magari a Sils-Maria durante le vacanze, ma non di rado Celan all’ultimo momento disdice l’incontro. Con orgoglio Peter gli invia il volume dei suoi Studi su Hölderlin, «così bello e ben riuscito» commenta Celan, ma gli parla anche, chiamandolo ormai «caro Paul», dei suoi problemi di salute che trasformano le lezioni «in una faccenda straziante e faticosa» e lo tengono lontano dalla corrispondenza.
Celan, a sua volta, gli manda di quando in quando sue traduzioni, anche dal russo come nel caso di Ossip Mandelstamm, o propri volumi di liriche con dedica, accolti sempre con grande entusiasmo. In momenti di crisi lo esorta a non perdere la fiducia, certo che saprà attingere «di nuovo e ancora spesso a piene mani alla fonte della creatività». Si augura poi di vederlo a Parigi, città che ha «i suoi lati oscuri, ma ogni tanto sa anche essere cordiale, specie quando si tratta di riceverla». Del resto anche Szondi non esitò ad aiutarlo in un periodo assai difficile per l’amico, durante il cosiddetto affaire Goll, che occupa non poco spazio nel loro epistolario.
Nel 1960 ebbe inizio infatti una pesante campagna stampa contro Celan a seguito di un articolo della moglie del poeta Yvan Goll, Claire, pubblicato su una rivista di Monaco. Vi si ripetevano accuse di plagio che la signora gli aveva già rivolto nel 1953 con una lettera indirizzata a editori, critici e scrittori. «Mi è piombata addosso anche l’infamia», confida ora Celan all’amico, costruita su contraffazioni e menzogne, tracciando quasi una linea di continuità tra quegli ignobili attacchi e la persecuzione degli ebrei. Szondi interviene prontamente con una lettera a sua difesa dal titolo Prestito o diffamazione? che, rifiutata dal giornale «Die Welt» uscirà poi sulla «NZZ». Anche il giovane Enzensberger prese le parti del collega sospettando che gli attacchi contro di lui e la sua opera avessero radici ben più profonde della «paranoia di un’anziana signora». Ma il poeta fa fatica a riprendersi e l’intera vicenda finirà per destabilizzare ancora di più la sua psiche già messa a dura prova dagli eventi dell’infanzia e dagli anni di guerra. Nel 1962 viene internato in una clinica psichiatrica, poi ancora altre volte, più tardi, per una sospetta schizofrenia. Eppure sono anni pieni di creatività come racconta all’amico nel novembre del 1967: «Dunque prosegue, in un tempo anche per me non troppo lieve, la scrittura di poesie (…) mi piacerebbe conversare con lei di tutto ciò e di molto altro». Poco dopo uscirà la raccolta Filamenti di sole, dove il linguaggio si contrae quasi in una sorta di afasia e si annunciano le fantasie ossessive delle sue ultime poesie, la disintegrazione degli spazi e della realtà fisica e umana.
Ma Szondi è spesso distratto dalla sua intensa attività che lo porta in giro per l’Europa, nelle università americane e anche a Gerusalemme. Il loro dialogo finisce per trascurare le cose che stavano veramente loro a cuore: la poesia di Paul e gli scritti di Peter, così come la sua battaglia nel Sessantotto a Berlino oppure la malattia di entrambi. Rimane sullo sfondo l’epilogo drammatico di un appassionato incontro che non riuscì a ribadire le ragioni della vita. L’anno dopo il suicidio di Celan anche Szondi se ne andò annegandosi, a soli quarantadue anni, in un lago berlinese. L’epitaffio per ambedue era già in qualche modo annunciato nel ritmo ossessivo della famosa poesia Fuga della morte: «Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera/noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte…».