Ho scritto di Gerhard Richter su queste colonne nel 2012 in occasione della grande esposizione alla Neue Nationalgalerie di Berlino intitolata Panorama. Mostra organizzata per i suoi ottant’anni con 130 opere, selezionate assieme all’artista, che prima era stata presentata alla Tate Gallery di Londra per terminare al Centre Pompidou di Parigi.
Ho accennato alla «crisi della memoria» nei confronti del nazismo. I Tedeschi dell’Ovest nel dopoguerra assumono un atteggiamento di oblio e quelli dell’Est, al contrario, ritengono di non essere coinvolti. Richter, dicevamo, sceglie di stare dalla parte dei vincitori; ma non nel dramma esistenziale dell’Informale bensì nel Pop di Rauschenberg. A Berlino viene esposto Oktober 18, dedicato alla vicenda Baader-Meinhof e alla «sete (auto)distruttiva delle nuove generazioni».
Il miglior modo per entrare nelle opere di Richter è leggere il volume La pratica quotidiana della pittura a cura di Hans Ulrich Obrist del 2003. Un libro pieno di interviste e, soprattutto, testi scritti dall’artista stesso sotto forma di note. Le opere di Richter sono modelli eterogenei e, scrive Obrist, occupano un punto in cui la «distinzione tra foto-realismo e astrazione si dissolve». «Sfoco le cose, scrive l’artista nel 1964, per renderle ugualmente importanti e ugualmente non importanti».
Nel 1982 si scaglia contro il mondo dell’arte che «è un immenso covo di miserie, bugie, falsità, depravazione, squallore, stupidità, nonsenso, impudenza». Poi anche contro le scuole d’arte e le Accademie, dove gli artisti risiedono come parassiti; i professori con la loro imbecillità e incompetenza. Poi stigmatizza chi organizza le mostre definendoli mercanti di tappeti, magnaccia e paragonandoli ai politici, impotenti e inetti, nauseanti. Si definisce anti-ideologo e grida il suo profondo disgusto per coloro che «pretendono di possedere la verità». Infine afferma di brancolare nel dubbio umano.
In questi giorni, e fino al 25 luglio, il Kunsthaus di Zurigo espone 140 suoi paesaggi: 80 quadri con disegni, collage fotografici, fotografie pitturate, stampe e libri d’artista. I paesaggi sono una delle forme che Richter utilizza accanto alla figura umana. Tipico Emma. Nudo che scende le scale del 1966. Lavora sulle fotografie che utilizza per realizzare dei dipinti sfocati. Per lui, comunque, non c’è distinzione fra pittura astratta, monocroma, di figura, d’après, gestuale, iperrealista: dipinge tutto contemporaneamente.
Nel 1986 scrive che «i miei paesaggi non sono belli o nostalgici, con la coda romantica o classica dei paradisi perduti, ma sono soprattutto bugiardi». E questo significa glorificare la natura perché essa è spesso contro di noi, senza un significato preciso, pietà o sensibilità. In un’intervista di Benjamin H.D. Buchloh del 1986 dice che «era attratto dalle città morte e dalle Alpi, in entrambi i casi si tratta di deserti di pietra, roba arida».
L’esposizione zurighese è divisa in cinque sezioni. La prima si intitola Paesaggi di seconda mano. Richter non rappresenta paesaggi bensì fotografie di paesaggi, ritrovabili nei dettagli di ogni immagine. Splendido nella sua maestosità impressionante Cascata del 1997. In Casa nella foresta del 2004 oltre a una rigogliosa vegetazione in primo piano, nell’angolo destro quasi di sfuggita, troviamo l’edificio per il personale del celebre hotel di Sils Maria.
Segue Innesti di ispirazione romantica. A volte le sue opere tendono al sublime o a qualcosa che possa assomigliargli. In catalogo si associa parte del suo lavoro al romanticismo, anche se lui lo ha sempre negato. In ogni caso lo scorcio del lago di Lucerna del 1969 ha qualcosa di particolarmente grandioso, come Vesuvio del 1976.
La terza sezione è intitolata Paesaggi nell’astrazione e presenta dipinti che paiono astratti ma che in realtà non lo sono, con città viste dall’alto – che sembrano particolari del Plan de Turgot – palme, intrichi vegetali, parchi verdi o vertiginose alpi innevate. Segue Paesaggi come costrutti fittizi dove la realtà non è più tale, né oggettiva, ma può essere un’altra cosa.
L’ultima sezione è Paesaggi sopraverniciati dove i paesaggi vengono in parte coperti con del colore, raschiati o spatolati, magari con la racla tipografica, sempre però con una componente astratta e quindi spaesante, come negli scorci di Firenze.
Magari, chissà, con una piccola forzatura teorica si possono associare questi ultimi dipinti all’idea relativa al periodo geologico odierno dell’antropocene dacché l’uomo, in questo caso la sua mano, condiziona la natura modificandola inserendo elementi, come il colore chimico, alieni al paesaggio.
In ogni caso il risultato è ugualmente bello. Per ora…