Ovidio e l’incessante mutamento

Un saggio di Nicola Gardini nel bimillenario della morte del grande poeta
/ 14.08.2017
di Giovanni Fattorini

Nel 17 d.C., a Tomi (l’odierna Costanza), città situata sulle remote e aride coste del Ponto Eusino (il Mar Nero), moriva uno dei maggiori poeti della latinità: Publio Ovidio Nasone. Moriva dopo nove anni di esilio, lontano dall’amatissima Roma, dove aveva completato gli studi (era nato a Sulmona nel 48 a.C.) e dove godeva di grande fama. Era stato costretto a lasciarla perché condannato alla relegatio dall’imperatore Augusto (un provvedimento che non fu revocato neppure da Tiberio). Di che cosa era accusato? Nel secondo libro dei Tristia (Tristezze) – la prima delle due raccolte di elegie composte a Tomi; l’altra s’intitola Epistulae ex Ponto (Lettere dal Ponto) – Ovidio scrive (la traduzione è di Nicola Gardini): «Seppure due colpe m’abbian perduto, un poema (carmen) e un errore (error) / devo tacere il fallo d’una di esse […] / Resta l’altro, per cui mi si accusa d’essermi fatto / maestro d’osceno adulterio con sconce poesie».

Romanziere, poeta e saggista (nonché traduttore in versi, fra l’altro, dei Tristia per Mondadori e delle Epistulae ex Ponto per Einaudi), Nicola Gardini (che attualmente insegna letteratura italiana e comparata al- l’Università di Oxford) ha recentemente dato alle stampe Con Ovidio. La felicità di leggere un classico, un saggio che succede a quello fortunatissimo del 2016, Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile, edito anch’esso da Garzanti, e giunto alla undicesima edizione. «Con Ovidio sono in dialogo fin dagli anni della giovinezza», scrive Gardini, che nell’autore delle Metamorfosi (frequentato e studiato con passione fin dal tempo in cui era dottorando alla New York University) vede il creatore di «una delle opere più amate, più influenti e più spettacolari di tutti i tempi». Grazie «alla varietà degli approcci e delle sollecitazioni» (di cui per ragioni di spazio non posso dare adeguatamente conto) si è quindi proposto di correggere «certe mitizzazioni da vecchio liceo: l’Ovidio salottiero, l’Ovidio da dolce vita, l’Ovidio decadente e fantastico, anticipatore del barocco e del dannunzianesimo, privo di messaggi profondi».

Concentrando l’attenzione sulle opere maggiori del canone ovidiano (spiccano i temi dell’esilio, dell’eros, della metamorfosi, della dissidenza), Gardini arriva a concludere che la «sorgente nascosta», ovvero la matrice della rigogliosa immaginazione del poeta, è rinvenibile «nell’idea di incertezza»: termine da intendersi positivamente come sinonimo di «relativismo, scetticismo, anticonformismo, disobbedienza, dissidenza, libertà, appartenenza a un ordine superiore che trascende le antinomie e le definizioni fisse». Non solo. L’incertezza di Ovidio è una vera e propria «teoria della realtà»: significa «credere che le cose non siano mai definitive né finiscano, ma durino non durando, in un incessante rinnovamento».

Questa «incertezza» è già evidente nelle 49 elegie erotiche che compongono i giovanili Amores (Amori), e più ancora nell’Ars amatoria (L’Arte dell’amore), opera didascalica in cui Ovidio – rivolgendosi nei primi due libri agli uomini, per insegnar loro come conquistare e conservare l’amore di una donna, e nel terzo alle donne libere, perché apprendano le malizie con cui farsi durevolmente amare da un uomo – si propone come scanzonato praeceptor amoris («maestro d’amore») e arriva a celebrare l’adulterio. Il che spiega perché il carmen indicato nei Tristia come una delle cause della relegatio a Tomi sia quasi concordemente identificato con l’Arte dell’amore: un’opera che contrastava con la politica di moralizzazione dei costumi voluta da Augusto, al quale doveva dispiacere anche la concezione dell’eros che permeava le composizioni elegiache degli Amori.

«Se l’amore richiede un’arte, che cos’è l’amore per Ovidio?». Benché il poeta non si esprima in termini speculativi, attraverso una lettura appassionata e puntuale delle sue opere maggiori Nicola Gardini evidenzia e organizza in un discorso coerente i tratti di un pensiero radicale. Per Ovidio, l’amore è «istinto al piacere e, sul piano pratico, partita, gioco […]». È desiderio che vuol essere appagato e che sempre rinasce «nel rinnovarsi delle esperienze e degli incontri». «[…] l’amante deve plasmarsi sul sempre diverso oggetto del desiderio. L’amante infatti non ha un’identità fissa, psicologica o morale: esiste in rapporto all’altro, come inarrestabile impulso a possedere, non a essere». «L’arte dell’amore è fondamentalmente anti-politica, anti-civica. Il cittadino si toglie la toga – in senso letterale – e resta nudo per il più anarchico adempimento: l’eiaculazione». «L’Arte dell’amore è un poema profondamente a-religioso. […] Proponendosi di fornire null’altro che una serie di precetti e di casi illuminanti, non ha più nessuna fede negli dei e nella tradizione».

Dunque: «Ovidio rappresenta un pensiero che, per quanto voglia e tenti, non si adatta al regime […]». «Non è disattenzione se neppure Tiberio lo rivuole in patria. Ovidio è e resta fino all’ultimo un dissidente quasi suo malgrado. La sua opera ha messo in crisi i presupposti di un’ideologia che pretende di alimentarsi di conservatorismo. Ovidio ha contrapposto – e continua a contrapporre anche da esule – alla normalità degli antichi valori e alle certezze augustee il dogma dell’incertezza».

Bibliografia
Nicola Gardini, Con Ovidio. La felicità di leggere un classico, Garzanti, pp. 188, € 15.