Klimt, Mahler, Gropius, Kokoschka… non si può certo dire che le siano mancate esperienze: la più bella di Vienna o vedova delle quattro arti, così veniva chiamata la compositrice Alma Mahler, femme fatale al tempo in cui Oskar Kokoschka si innamora di lei. Una passione fulminea, ossessiva, soffocante che porterà il pittore e drammaturgo espressionista austriaco quasi alla follia. Certamente gli causò una singolare reazione quando l’ardente vedova decise di lasciarlo: per fuggire da dolorosi fantasmi, chiese a una costruttrice di giocattoli di realizzare una bambola snodabile che replicasse esattamente le fattezze di Alma. Un feticcio che l’artista poi distrusse, come un atto creativo, per sublimare la perdita dell’amata.
Le minuziose istruzioni di Kokoschka per dar forma alla bambola sono parte della corrispondenza con l’artigiana che una voce legge sulla scena dell’omonimo spettacolo di Ledwina Costantini creato in collaborazione con Daniele Bernardi e al suo debutto al Teatro Sociale di Bellinzona. Ricalcando tipologie teatrali ricorrenti, con Kokoschka, la nascita e l’epilogo distruttivo del feticcio femminile per Costantini-Bernardi diventano elementi di un esplicito traslato sui drammi della violenza di genere. Avvolta in un abito dorato, la luce dell’arte, Ledwina ricostruisce sul palco la bambola con sacrale lentezza. Sulle parti intime rivediamo l’immagine de L’origine del mondo di Courbet ma prima di smembrarla trova posto anche un richiamo alla Pietà michelangiolesca.
La platea segue in un contesto ravvicinato grazie a una piccola telecamera che documenta il rito sacrificale dove il possesso e la disgregazione del corpo accompagnano la dicotomia dell’anima fra amore e odio, fra Eros e Thanatos. Uno spettacolo rigoroso e dal sapore performativo, fra le note di un coro e orchestra e la voce di Milva che, sulla sorpresa finale, ci ricorda che gira il mondo gira...
Quando uscì tradotto in italiano per le edizioni de Il Mulino, la fascetta del volume recitava entusiasta: Quattro edizioni in due mesi. Il libro più beffardo dell’anno. Con il titolo Allegro ma non troppo, nel 1988 l’autorevole economista pavese Carlo Cipolla si arrendeva così al pubblico della sua lingua madre abbandonando gli austeri panni dello studioso consegnando alle stampe un paio di brevi saggi originariamente scritti in inglese per fare un regalo agli amici: un divertissement, un guizzo anarchico dell’intelligenza. Il libricino, diventato rapidamente un best-seller, conteneva una parodia della storia socioeconomica del Medioevo e una scherzosa (ma non troppo, appunto) teoria sulla stupidità umana che conserva la sua sconcertante attualità.
Una particolarità che non è sfuggita a Emanuele Santoro, attore e regista salentino ormai trapiantato, da anni fra i protagonisti della scena indipendente ticinese oggi martoriata da una discutibile politica culturale. Mantenendone la sostanza, Santoro ha riproposto il saggio con una rilettura scenica a cui abbiamo assistito al Teatro Paravento di Locarno. Delle teorie di Cipolla, suddivise e argomentate in cinque leggi fondamentali, va certamente ricordata la quinta, la più importante: la persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista. Facendo astrazione dal gioco intellettuale, per accorgerci quanto siamo in balìa della stupidità il passo è breve.
Una realtà che, come identifica Santoro nella sua documentata premessa, sfocia in sciocchezze e situazioni involontarie in cui la stupidità si confonde con l’ingenuità. Un fenomeno che contagia spesso anche istituzioni che dovrebbero essere insospettabili. Succede con i paradossi dalla politica, dell’amministrazione e con situazioni che, viste con quella lente della stupidità, rivelano quanto esse siano immerse in una inquietante stupidità.
L’Orazione semiseria di Santoro riesce a unire le teorie di Cipolla a una personale traccia ironica grazie una piacevole riscrittura.