Omicidio di gruppo ricostruito in scena

Uno spettacolo dello svizzero Milo Rau, nuovo astro del teatro europeo
/ 20.05.2019
di Giovanni Fattorini

La notte del 22 aprile 2012, a Liegi, proprio davanti al bar da cui è appena uscito, un omosessuale trentaduenne, Ihsane Jarfi, figlio di padre marocchino e madre belga, sale su una Polo grigia a bordo della quale ci sono quattro giovani ubriachi. Mentre l’auto lascia la città, viene brutalmente percosso. Raggiunta la campagna, i quattro lo fanno uscire dal bagagliaio in cui a un certo punto lo avevano rinchiuso e lo massacrano di botte. Dopo averlo spogliato di tutto, se ne vanno, lasciandolo agonizzante e nudo sotto la pioggia.

Questo il fatto di cronaca che è all’origine di The Repetition. Histoire(s) du théâtre (I), recente spettacolo (in scena per soli tre giorni al Piccolo di Milano) del regista teatrale e cinematografico Milo Rau (Berna, 1977), autore di un Manifesto, pubblicato nel 2018 (GNGent Manifesto), il cui primo articolo recita: «Non si tratta più di dipingere il mondo. Si tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è rappresentare il reale, ma rendere la rappresentazione essa stessa reale». Che il teatro e l’arte in generale possano cambiare il mondo è una vecchissima illusione (non sono il solo a pensarlo: mi trovo in ottima e numerosa compagnia) che reca in sé il germe pernicioso del didascalismo e del didattismo.

Quanto alla seconda dichiarazione, temo di non capire che cosa voglia dire esattamente. Svolgendosi in uno spazio (specifico o tradizionalmente deputato) che ospita oggetti tangibili e corpi viventi, ogni spettacolo teatrale è sempre reale. Al tempo stesso è sempre e interamente finzione, sia quando vuol essere mimesi della realtà, sia quando ripropone – replica dopo replica – alcuni meccanismi di svelamento della finzione teatrale. (Formalizzate e ripetute, anche le informazioni su di sé fornite dagli attori non professionisti di The Repetition sono diventate parti costitutive di tre «ruoli»: quelli di due attori e un’attrice non professionisti).

Se ho ben capito, la realizzazione dello spettacolo (strutturato in cinque «capitoli» e una scena – quella del casting – che introduce alla ricostruzione del crimine) è avvenuta attraverso i seguenti passaggi: a) un’indagine sociologica sul campo (la città e i dintorni di Liegi, dove a partire dagli anni 80 la crisi dell’industria siderurgica ha provocato un forte aumento della disoccupazione (i quattro assassini erano tutti senza lavoro); b) l’assegnazione delle parti a tre attori professionisti (Sara de Bosschere, Sébastien Foucault, Johan Leysen) e a tre non professionisti scelti attraverso un casting (la dog sitter Suzy Cocco; il magazziniere Fabian Leenders; il giovane di origine magrebina Tom Adjibi, saltuariamente scritturato per ruoli cinematografici di scarsissimo rilievo), i quali impersonano, nell’ordine, la madre della vittima, uno degli assassini, e Ihsane Jarfi; c) la scrittura collettiva di un testo, successivamente asciugato e modificato attraverso il lavoro in scena con gli attori (Rau sostiene che il testo non deve costituire più del 20% di uno spettacolo), fino a diventare, a mio parere (la drammaturgia è di Eva-Maria Bertschy), un po’ troppo sbrigativo sia nel fornire ragguagli sul contesto sociale in cui si è verificato il delitto, sia nell’illuminare la vita e la personalità degli attori non-professionisti, sia nel tratteggiare le figure degli assassini e della vittima.

Se le battute risultano a volte commoventi (e nella scena del casting anche deliziosamente umoristiche), lo si deve soprattutto alla grande bravura degli attori (Adjibi si produce persino in un’apprezzabile esecuzione di una famosa e difficile aria del King Arthur di Purcell), dei quali a tratti vediamo – su un grande schermo sospeso al centro della tenebrosa scena di Anton Lukas – ora i volti ripresi da una telecamera collocata in punti diversi del palcoscenico, ora le figure intere, riprese in precedenza, che a mio parere non entrano in relazione dialettica con gli attori che agiscono in posizione sottostante. Come si è constatato in occasioni ormai innumerevoli, le immagini in movimento proiettate su grande schermo sono sopraffacenti: finiscono con l’attirare quasi esclusivamente su di sé l’attenzione dello spettatore.

Sulla qualità e la funzione delle immagini (c’è anche una scena da docu-fiction) dovrei parlare più a lungo, ma nel poco spazio che resta a mia disposizione voglio accennare a una questione di non secondaria importanza. Milo Rau ha dichiarato (riproponendo, si direbbe, il concetto di «assurdo») che a interessarlo è stata anche «la banalità di una violenza che scaturisce dal nulla, che si manifesta per caso, per la coincidenza di un incontro, senza premeditazione». Ma la prolungata brutalità dei quattro che hanno massacrato, derubato e denudato Ihsane (uno di loro – stando allo spettacolo – gli ha persino pisciato addosso), e che durante il processo hanno dichiarato di aver voluto dare una lezione a un omosessuale, non mi pare assimilabile, per esempio, ai quattro «assurdi» colpi di rivoltella sparati su un corpo inerte dal protagonista dello Straniero di Camus.