La nuova raccolta di poesie di Pietro Montorfani, L’ombra del mondo, uscita per Aragno, (pp. 98, euro 12) con prefazione di Marco Vitale, si è sedimentata come le scritture serie dovrebbero, in molti anni, tanto che talune delle pagine del nuovo libro hanno visto precedente pubblicazione in riviste come Atelier, Gradiva e in quest’ultima compare tra l’altro l’importante intervento sul poeta, di Giancarlo Pontiggia. Ebbene questi versi, a leggerli, sembrano fatti d’aria o di quelle cose leggere ed eteree come le foglie; e difatti sospesi sulla pagina volteggiano, si riprendono come dentro un turbine e il lettore rimane nel mezzo, quasi incantato, a vedere dove queste parole quasi diafane portino.
E il titolo, L’ombra del mondo, che riprende il verso di una memorabile poesia di Fortini, Al poco lume del 1950, ci dice molto; è già lì dentro il senso del libro: dare testimonianza non certo di una pesanteur novecentesca ma anzi di quella tempra interna a ogni vero poeta, molata contro le avversità e che sa sempre invece aprirsi alla luce e, in mancanza, a un suo residuo. Ed ecco che dall’alto di un cielo azzurro e profondo, quello svizzero, come appeso sopra un quadro di maestose cime, ci giungono le parole di Montorfani scarnificate all’essenziale, dense di una simbologia mai astratta; sembrano volteggiare appunto per poi posarsi su un’orografia possente fatta di foreste, terrazzi erbosi posseduti quasi da quei «sovrumani silenzi» ottocenteschi: «Terrazzo alpino aperto / su una valle chiara: / l’Austria di là, la Svizzera / oltre un castello di nubi. / Guarda è un invito, una fiaba / – dopo anni – divenuta reale, / …».
Ma queste parole, nel loro risvolto trasmettono, come torcendosi, repentini cambi di sonorità, entrano nell’uomo, nella sua alta e trabordante progressione tecnologica; sentiamo, leggendone gli sferragli, le scie dei treni, che rodono il ventre dei valichi, per obbedire a quella sete di movimento consustanziale all’uomo. E vengono tratteggiandosi in queste residenze mobili, affetti famigliari appena accennati, che talvolta stridono e si mischiano nel verso con certe disperazioni fatte di quella piaga del contemporaneo: le migrazioni: «Attraversare la highlands senza nome / superato il più stretto / corridoio d’Europa nel cui / buio si muore / dopo tanta piana per chi / suona la cornamusa nella stiva / del San Gottardo per chi / stride».
La parola dal buio delle gallerie torna su nel cielo, svolazza ancora e costeggia altre antropologie e orografie; già, perché Montorfani dalla loro continua auscultazione ricava il movimento della storia dell’uomo, che è storia dello spirito di hegeliana memoria e che continuamente si invera nella prassi edificando architetture e ideologie molteplici, protese però forse verso le altezze dell’utopia: «… / oltre i ponti, e gli archi, / dei viadotti ferroviari, / ruotano l’occhio di Sauron / le torri-sorelle di Stalin».
E i territori che spaziano da nord a sud da est a ovest della Svizzera, si fissano nella pagina attraverso continue regressioni e progressioni temporali, così come i popoli che li abitano con le loro vite, fatte di minimi eventi, feroci conflitti, che riportano sempre a un senso di precarietà dell’esistere sottesa e inquietante; eccoci per esempio proiettati nel pieno rinascimento ad Arbedo, cittadina ticinese: «L’uccello vero lascia quello finto / sulle pareti di San Paolo. / Svolazza… / lungo la piana già resa vermiglia / dagli uomini del Carmagnola, / quando la morte era un volto tra i tanti / la vita un soffio». E così gli altri segni, i primi, quelli primordiali incisi nelle grotte di Lascaux, quasi riavvolgono testimoni, l’inizio e l’avanzare nei lenti millenni del sogno dell’uomo: «Europa di foreste e misurate / parole,… /di cacciatori silenziosi. / …».
Dunque, si srotola continuamente nella pagina la terra accartocciata degli alti massici centrali o distesa nelle lunghe praterie del Nord, e continua ad apparire nel suo vario tratteggio storiografico, sempre vivificato dalla lingua di Montorfani. E talvolta, procedono nel libro paralleli, eventi temporalmente lontani, ma poi, come uscendo dal loro spazio-tempo, si intersecano in un punto di tangenza, e in quel momento ecco esservi un cortocircuito che deflagra nella psiche del lettore, e un senso profondo si muove nella pagina e fa muovere: «Entra nel tempo, esce / dai meandri della storia / la vecchia Trabant passata per caso / dal posto di blocco, / davanti agli occhi vacui dei turisti / falso ridenti sopra il memoriale».
L’Europa delle sorti progressive, l’Europa come luogo di comunità costituite da tanti piccoli nuclei iniziali, l’Europa di un territorio specifico, che è anche quello di una memoria dalla quale si parte per sperimentare vite altre; ecco cosa custodiscono questi versi che, sempre pacati, rappresi, ci spalancano di converso l’abbagliante e feroce mistero del vivere.
Da quel recinto protetto, dove vagano le ricordanze degli affetti lontani e dove i frulli degli uccelli riportano alle carezze sperdute delle relazioni più intime, Pietro Montorfani parte e sempre partirà per dar testimonianza della sua visione dell’esistere che è cammino, spostamento, conoscenza enigmatica continuamente sperimentata nel mondo, nei suoi battiti inconoscibili: «“Papà vieni a fare l’arbitro!” // Dal vecchio cancello in ferro battuto / filtra una luce non strana, autunnale. / Illumina i capelli delle bimbe / … // Oltre il muretto a secco del giardino / la savana infinita dei campi / moltiplica il suo giallo a perdifiato / (Rosate, Barate, Noviglio) / fino al Re Leone».
Nuovi territori interiori
Nella sua nuova raccolta poetica il ticinese Pietro Montorfani ci invita a compiere un viaggio dentro di noi e nella nostra storia, presente e passata
/ 28.12.2020
di Guido Monti
di Guido Monti