Non sarà paragonabile al fervore edificatorio che ha prodotto il «candido mantello di chiese» di cui si è ricoperta l’Europa nei primi decenni dopo il Mille come racconta nelle sue Storie Rodolfo il Glabro, ma la voglia di «liberarsi e di scrollarsi di dosso la vecchiezza» che sembra pervadere negli ultimi tempi la realtà museale svizzera, e in modo particolare quella dei musei d’arte, è indubbiamente degna di nota e merita forse qualche considerazione di ordine generale. Nei primi due decenni del nuovo millennio si sono infatti succeduti, in una sorta di crescendo rossiniano che ha raggiunto l’apice poche settimane fa con l’inaugurazione del nuovo imponente edificio del Kunsthaus di Zurigo, tutta una serie di ampliamenti, ristrutturazioni e nuove edificazioni che hanno modificato in profondità il parco architettonico dei musei d’arte svizzeri.
Le tappe di questo martellante percorso di rinnovamenti sono presto ricordate: nel 2003 viene completato l’ampliamento dell’Aargauer Kunsthaus e viene aperto lo Schaulager a Basilea, entrambi su progetto di Herzog & de Meuron; nel 2005 Renzo Piano firma il Zentrum Paul Klee a Berna; nel 2015 è la volta di Lugano che inaugura la nuova sede del MASI all’interno del LAC. L’anno dopo, il Bündner Kunstmuseum di Coira e il Kunstmuseum di Basilea si dotano entrambi di una nuova struttura che viene eretta a fianco della loro sede storica. Nel 2019, Losanna, dopo lunghi anni di dibattiti, dà il via, con l’apertura della nuova sede del Musée Cantonal des Beaux-Arts, all’area della Platforme 10 che verrà completata nel 2022 con la costruzione di un ulteriore edificio museale in cui saranno ospitati il MUDAC e il Musée de l’Elysée.
Infine, se il 2021, come già ricordato, è l’anno del nuovo Kunsthaus di Zurigo progettato da David Chipperfield, c’è già molta attesa per il 2023, quando la Fondazione Beyeler affiancherà allo splendido edificio progettato da Renzo Piano nel 1997 tre nuovi edifici disegnati da Peter Zumthor. Va inoltre ricordato che se Ginevra manca in questo elenco non è perché sul Lemano quest’esigenza di rinnovamento non sia sentita, ma perché il progetto per l’ampliamento del Musée d’art et d’histoire affidato a Jean Nouvel è stato bocciato dai cittadini nel 2016. Nel frattempo però si sta lavorando a una nuova ipotesi che dovrebbe essere concretizzata nei prossimi anni.
Ma qual è, o meglio, quali sono le ragioni, che hanno spinto praticamente tutte le città svizzere di grandi e medie dimensioni a mettere mano al proprio museo d’arte per ristrutturarlo, ingrandirlo o dotarlo di nuovi spazi e infrastrutture? E come si spiegano questi investimenti plurimilionari, in una realtà in cui quasi sempre chi opera nel mondo della cultura lamenta la scarsità di mezzi che gli vengono riservati rispetto ad altri settori della vita civile? Certo, ci sono spiegazioni, abbastanza ovvie di natura pragmatica: le collezioni crescono continuamente, gli spazi espositivi nati per opere di dimensioni più contenute faticano a contenere opere contemporanee spesso di dimensioni gigantesche, le strutture e gli impianti risultano ormai inadeguati sul piano tecnologico e della sicurezza, i servizi di mediazione e gli eventi che il museo offre richiedono spazi finora inesistenti.
Eppure tutte queste ragioni non bastano a spiegare un fenomeno che in primo luogo ha a che fare con la funzione sociale del museo. Perché il museo prima di essere una raccolta di oggetti o un edificio che li contiene e li espone è un’istituzione sociale che, attraverso le modalità con cui seleziona e organizza l’accesso ai beni che conserva, riflette il contesto da cui dipende la sua stessa esistenza.
Se analizziamo dal punto di vista architettonico tutti questi ampliamenti ci accorgiamo che, al di là della diversa qualità dei singoli progetti, vi è un sottile ma sostanziale rovesciamento del modello white cube che si era imposto negli anni Sessanta e Settanta in concomitanza con l’affermazione dell’arte minimalista e concettuale. Al rigore assoluto e spartano di uno spazio totalmente asettico che doveva annullarsi per affermare l’universalità dell’opera, si sostituisce ora uno spazio che apparentemente mantiene questi caratteri, ma che in realtà li sovverte completamente coniugandoli con la ricercatezza dei materiali e la raffinatezza e la cura dei dettagli. Sempre più gli ambienti espositivi si caratterizzano infatti per i parquet di legno pregiato, per le grandi finestre scenografiche che si aprono sul paesaggio circostante, per gli infissi di materiali inconsueti.
Ma è soprattutto negli spazi, un tempo «collaterali», delle hall, dei vani di passaggio, delle scalinate, degli shop, dei bar e ristoranti, dei locali destinati alle attività di mediazione, che si esprime in tutta la sua opulenza un vero e proprio sfarzo architettonico fatto di cemento armato a vista, di rivestimenti in marmo o altre pietre naturali, di inserti e infissi in acciaio spazzolato o in ottone, di vetrate in cristallo dalle superfici amplissime, di mobili dal design sofisticato, di display ultrapiatti.
Questo rovesciamento di polarità all’interno dello spazio museale non è affatto casuale, visto che la vita del museo si svolge e dipende sempre più da questi spazi, più che da quelli propriamente destinati all’esposizione delle opere. Non è però tanto il pubblico generalista – che per le amministrazioni da cui i musei dipendono rimane importante in termini di affluenza numerica soprattutto per il consenso politico che questo garantisce – il «pubblico ideale» di questi lussuosi rinnovamenti architettonici.
Il museo è infatti diventato sempre di più uno spazio di eventi privati esclusivi che in questo contesto architettonicamente raffinato trovano la loro perfetta ambientazione. Cene e aperitivi di sponsor o altre ditte private, incontri e visite per gruppi selezionati di collezionisti e mecenati costituiscono ormai uno strumento fondamentale attraverso il quale il museo cerca di raccogliere i fondi necessari alla propria attività, diventando però al contempo lo strumento di affermazione di un modello sociale elitario che contraddice lo spirito universalistico da cui ha origine. Tutto ciò chiama inevitabilmente in causa il complesso e delicato equilibrio tra pubblico e privato che da sempre caratterizza le istituzioni museali.
Non è quindi un caso che proprio attorno a questo tema si sia accesa la polemica che ha accompagnato l’apertura della nuova sede del Kunsthaus di Zurigo dove ha trovato casa una collezione, dalle origini in parte controverse, come quella di Emil Bührle.
(Continua)