Le dichiarazioni di Mario Timbal alla presentazione del palinsesto della rentrée RSI lasciano un retrogusto di delusione. Ha parlato, certo, di vicinanza con il pubblico e della bella sfida di compatibilità tra risorse che diminuiscono e qualità da mantenere, con un appello non retorico alla taumaturgica forza delle idee.
Delusione però per la mancanza (per ora) di una riflessione strategica sui modi in cui l’azienda deve affrontare il proprio impegno per il servizio pubblico nell’attuale contesto, con il trionfo ormai assestato dei contenitori privati per l’intrattenimento e con la drastica modifica delle modalità di fruizione dei contenuti audiovisivi. Sembra difficilmente contestabile che l’ambizione di offrire un servizio «universale» sia, in questo environment mediatico e in tempi di delegittimazione politica e di strette finanziarie, un esercizio quasi velleitario. Mi aspett(av)o quindi un primo segnale che alludesse a un futuro cambio di passo; un’attesa legittimata dalla storia professionale, dalla sua capacità di affrontare temi complessi da una prospettiva non ovvia, non più banalmente aziendalista, e con un interesse spiccato per la creatività.
Per uscire dal generico, mi aspetterei ora la presa d’atto nei fatti che il vero core business debba articolarsi su informazione e cultura, ambiti nei quali si imporrebbe un deciso potenziamento a tutti i livelli. Questo duplice focus dovrebbe assorbire l’essenziale delle risorse, l’azienda dovendo essere disponibile a ridurre presenze in altri settori, addirittura a non più presidiarli se altri attori sono ormai in grado di presentare un’offerta variata e di qualità. E poi una riflessione sui modi in cui l’azienda deve adempiere al proprio mandato in termini di formazione e di mediazione, di attenzione al territorio e agli elementi che favoriscano la conoscenza e la coesione nazionale. Un altro tema è quello della trasmissione dei contenuti a ogni tipo di pubblico dovendo essere assicurato l’accesso con la modalità ad esso più idonea. Quindi, compresenza di diverse forme di offerta e con contenuti fruibili su piattaforme diverse, lineari classiche (anche FM) o digitali. E poi, riuscire finalmente a utilizzare con coerenza le sinergie tra i vari vettori: la ormai mitologica «convergenza», ricordate?
Sono riflessioni che sembrano urgenti, visti i venti di guerra che spirano dalla politica. E questo al di là del tentativo, simpaticamente goliardico ma un po’ vieux jeu, di arruffianarsi il pubblico sdoganando una programmazione senza novità «vere» attraverso un’operazione-simpatia condotta con la stampella dei volti noti d’antenna.