Al di là degli orrori e delle devastazioni sappiamo cosa la guerra abbia significato come lacerazione delle coscienze e come mortificazione delle aspirazioni intellettuali. Vi fu chi al funesto evento reagì con la chiusura di ritrovata ragione nazionalistica (Saint-Saëns nel suo scritto accusatore Germanophilie, 1916); vi fu chi si appartò come Ferruccio Busoni nella neutrale Svizzera a meditare sull’infausto destino di non poter prendere partito per belligeranti rappresentanti due paesi da cui aveva succhiato in ugual misura il nutrimento spirituale; vi fu chi come Alfredo Casella fu occupato a correggere le aberrazioni xenofobe nel giudizio sulla «musica straniera» di grandi musicisti improvvisamente demonizzati e declassati a nemici (si veda l’articolo Arte e patria, in «Musica», 25 gennaio 1916); vi fu chi come Romain Rolland non se ne capacitò, vedendovi crollare i principî affermati nel suo Jean-Christophe, fondati sull’illusione di poter formare un artista europeo in grado di cogliere in una specie di sintesi il patrimonio culturale delle varie nazioni.
Meno sappiamo di cosa succedesse dall’altra parte del fronte. Significativo è il punto di contatto involontario riferito da Vittorio Gui, direttore d’orchestra mobilitato come tenente del genio. Nell’inverno 1917, al comando di un posto d’ascolto nelle trincee del Monte Zebio (quota 1591) dove la linea degli italiani si avvicinava a quella nemica fino a una distanza minima di otto metri, attraverso l’apparecchio gli capitò di intercettare conversazioni provenienti dall’altra parte del fronte. Si trattava di ufficiali austriaci intenti a far musica con l’ausilio di un grammofono da cui scaturiva in modo identificabile il duetto del Trovatore («Ai nostri monti ritorneremo»), episodio tale da suscitare in lui tali considerazioni:
«Ignoto collega ufficiale austriaco […] se il fato sotto la vile forma del così detto “piombo nemico” ha risparmiato la tua pelle come ha risparmiato la mia, dovunque tu oggi ti trovi, o nella pace della tua ricuperata famiglia, o nel turbine inquieto della tua vita d’affari, sosta un minuto e cerca di ricordare… e dimmi qual demone ironico ti suggerì l’idea di metter nel tuo rauco grammofono proprio in quell’ora quel disco di italianissima nostalgia, quasi a dare la risposta più chiara più definitiva e più libera alla spudoratezza di quegli inscenatori di dimostrazioni patriottiche che nelle pieghe della bandiera del loro paese nascosero le loro mani adunche di rapinatori e le loro bocche avide di divoratori di cadaveri… e l’ingenuità delle folle si inchinava!» (Nazionalismo musicale in V. Gui, Battute d’aspetto, Firenze 1944).
In verità anche sull’altro fronte non mancarono coloro che lucidamente si rendevano conto di come la guerra dilapidasse tragicamente i valori costruiti nei secoli dall’azione incrociata delle culture presenti sul continente europeo. La testimonianza di Paul Bekker, consegnata in due scritti dal fronte (Kunst und Krieg pubblicati in Kritische Zeitbilder, Berlino 1921), ci rivela una posizione vicina a quella del Casella, per la capacità di resistere alle rozze tentazioni patriottiche e per la lucida razionalità di giudizio sui valori meritevoli di conservazione. Impegnato sul fronte occidentale, proprio nella circostanza dell’assedio di Anversa, veniva attraversato da pensieri come questo:
«Ma come, dovremmo disdegnare o rigettare con violenza antiche culture che hanno raggiunto una loro maturità, mostrandosi qua e là forse anche un po’ appassite, soltanto perché i loro odierni rappresentanti si contrappongono a noi oggi, in questa impressionante rivolta? Se così facessimo, saremmo noi i veri barbari, come taluni cercano di farci passare. Il conquistatore, che voglia essere di più del bruto conquistatore, sa che non deve tentare di devastare il suolo straniero ma semmai renderlo fertile, ancora più fertile di quanto già non fosse.
[…] E quindi mi figuro l’immagine della nuova musica tedesca: veritiera e portatrice di una nuova, rigenerata volontà di vivere. Che sia ottimista o applichi la nuova armonia dei francesi, fa lo stesso: il genio creatore si fa beffe di simili precetti da maestro di scuola. Ma questo genio adempirà tanto più pienamente la propria missione, quanto meno si interrogherà sui confini dei caratteri nazionali, quanto più saldamente saprà riallacciare, grazie alla propria arte, quella catena che unisce nel genere umano i popoli oggi in lacerante contrapposizione».
Ma in Bekker c’è di più. Vi troviamo una concezione strategica della cultura la quale, se a tutta prima può sconcertare per l’apparente assecondamento del perfido meccanismo logico innescato dal conflitto, in realtà si prepara già a uscirne, a trarre lezione dagli errori, dalle deformazioni e dagli eccessi per individuare nuovi traguardi di speranza. L’affermata legittimità di non rinunciare al discorso sull’arte pur indossando la divisa del soldato rappresenta il tentativo di sottrarre il monopolio dello sfruttamento della situazione di crisi agli esponenti di un pensiero reazionario più o meno opportunisticamente impegnati a fermare le lancette del tempo. Per Bekker è proprio la guerra a costituire la prova del confronto con la necessità di rinnovamento non solo delle coscienze, ma anche della realtà.
«Se l’arte venisse a mancarci in questo istante allora avrebbero ragione coloro che anche in tempo di pace vorrebbero vederla cancellata dai piani di bilancio statale e comunale, perché inutile divoratrice del denaro pubblico e costoro, zelanti politici in tempo di necessità, mercanteggerebbero per ogni centesimo ad essa devoluto. Ma se invece risulta che noi, nonostante la guerra e proprio a causa di essa, abbiamo bisogno della nostra arte, che dobbiamo averla per poter difendere le nostre esistenze morali e spirituali, allora la guerra, anche in questo campo, ci porta un insegnamento che, compreso correttamente, non solo ci eviterà in futuro estenuanti dibattiti in Parlamento, ma dovrà portare a una nuova organizzazione basilare del nostro interesse pubblico per l’arte».
Eccolo quindi puntare gli strali contro chi ha fatto dell’arte un oggetto di mercimonio, figure sorte nel momento in cui l’arte ha allargato il suo raggio d’azione nella società. Uno degli insegnamenti «che la guerra ci ha dato […] è che i beni di così alto significato per la collettività non debbano essere lasciati allo sfruttamento di speculazioni private, ma debbano sottostare alla custodia e all’amministrazione di questa collettività».
La rigenerazione della musica non poteva quindi darsi senza un ripensamento della sua funzione nella società e la formulazione di un progetto che ne mutasse i rapporti a favore dell’intera comunità, garantendole l’accesso al patrimonio artistico.
In questo senso l’attenzione privilegiata riservata al teatro, per quanto riguarda il superamento della logica gerarchica sopravvivente nella tradizione feudale dei teatri di corte e soprattutto per quanto riguarda la funzione privata e speculativa della cultura, delineava già in tratti più che profilati le linee direttrici lungo le quali si sarebbe sviluppata nel dopoguerra la politica culturale dei governi a componente socialdemocratica della Repubblica di Weimar. Il fatto che, in veste di sovrintendente dei teatri d’opera di Kassel e di Wiesbaden fra il 1925 e il 1933, il musicologo assumesse una propria parte di responsabilità nelle ritrovate aperture creative del teatro musicale tedesco sta a indicare come la presa di coscienza maturata negli anni di guerra avesse gettato le basi del tipo di intellettuale a vocazione radicale e nel contempo operativamente integrato, caratteristico della situazione tedesca degli anni Venti.
Note di guerra
Anche da parte tedesca durante il Secondo conflitto mondiale vi fu chi fece importanti riflessioni sul valore universale dell’arte
/ 06.07.2020
di Carlo Piccardi
di Carlo Piccardi