Niki de Saint Phalle, a cui il Kunsthaus di Zurigo dedica un’ampia retrospettiva, è indubbiamente una delle grandi protagoniste dell’arte della seconda metà del Novecento e il suo nome non poteva certo mancare nella lunga teoria di figure femminili a cui i musei svizzeri stanno dando ampio spazio da qualche tempo a questa parte. Una retrospettiva, quella proposta dal museo zurighese, ricca e intensa, straripante di forme e di colori, un po’ come se si trattasse di un unico grande assemblage di quest’artista che nel corso della sua carriera è riuscita a coniugare un’incontenibile e gioiosa forza vitale a un’implacabile e feroce affermazione della propria libertà e della propria femminilità. Una retrospettiva, verrebbe da dire (lo si dice, in questo caso, senza alcuna intonazione negativa), pensata e costruita per il grande pubblico. E a giudicare da come brulicavano di persone le sale del Kunsthaus quando l’abbiamo visitata, quest’ultimo sembra stia rispondendo in maniera massiccia.
Del resto, Niki de Saint Phalle non è stata solo l’artista d’avanguardia che ha partecipato fin dagli esordi, unica donna in un club esclusivamente maschile, all’esperienza del Nouveau Réalisme, o la bella ed elegante aristocratica francese che ha abbandonato il proprio mondo dorato per vivere en bohème assieme a uno scultore svizzero con l’aria perennemente arruffata e trasandata di chi è appena uscito da un’officina meccanica, ma è stata soprattutto la creatrice, con le sue nana, di una vera e propria icona Pop della contemporaneità, sorta di marchio universale che incarnava una femminilità liberata, gioiosa e vitale, ma al contempo consapevole della propria forza. Queste meravigliose figure dai fianchi ampi e dai seni abbondanti, abbigliate con costumi attillatissimi e coloratissimi, se da un lato hanno la fertile possanza e la forza placida della Grande Madre primordiale, dall’altro ci appaiono spesso nell’atto di volteggiare con la grazia e la levità di una ballerina classica. Alla maestosità ciclopica dei loro corpi si contrappone tuttavia la minuscola dimensione della testa, perché come la stessa Niki de Saint Phalle spiegava in un’intervista televisiva dell’epoca, la razionalità e il pensiero scientifico sono un tratto caratteristico di un’intelligenza maschile impostasi su altre forme di intelligenza legate invece al corpo, all’emotività e alla sessualità che sono proprie dell’identità femminile e che appaiono come l’unica salvezza possibile di fronte all’incombere del totalitarismo tecnocratico.
L’affermazione del femminismo gioioso e liberatorio delle nana culminò in un evento spettacolare che si guadagnò le prime pagine di tutti i giornali: la grande Hon («hon» in svedese significa «lei») di oltre 23 metri di lunghezza che Niki de Saint Phalle realizzò nel 1966 assieme a Jean Tinguely al Museo d’arte moderna di Stoccolma, dove un direttore geniale come Pontus Hultén stava dando spazio alle punte più avanzate della ricerca artistica americana ed europea del tempo. Le oltre 100’000 persone che nel corso di tre mesi attraversarono la porta-vagina penetrando all’interno del corpo di questa enorme figura femminile sdraiata si stavano in qualche modo già incamminando verso le battaglie di libertà e di emancipazione con cui, due anni dopo, il Sessantotto metterà in discussione un mondo ormai al tramonto.
La pars construens di una consapevolezza artistica a cui Niki de Saint Phalle approda intorno dalla metà degli anni Sessanta, facendosi carico di battaglie civili e identitarie che vanno dal ruolo della donna, alla sessualità, dal razzismo ai rischi ecologici, ha avuto però la necessità di una pars destruens durante la quale l’artista si è confrontata, con intransigenza e senza far sconti nemmeno a sé stessa, con la realtà sociale del tempo e con i suoi fantasmi personali. Al carattere ancora naïf di una pittura a cui si era avvicinata a scopo terapeutico nella seconda metà degli anni Cinquanta, per curare le ferite che l’ambiente familiare aveva inferto alla sua anima, si è sostituita ben presto la forza dirompente ed esplosiva degli assemblages, realizzati dopo l’incontro a Parigi con lo spirito dissacrante e dadaista dei nouveaux réalistes.
Oltre a Tinguely, che conosce nel 1956, sono Dubuffet, Pollock e Rauschenberg le influenze che si ravvisano nei suoi primi rilievi, ottenuti affogando nel gesso frammenti e oggetti della quotidianità così da dar vita a quelli che appaiono come dei paesaggi mentali. Tra gli oggetti disparati presenti in questi rilievi ritroviamo anche delle armi da fuoco, come in Green Sky del maggio del 1961. Ed è proprio un’arma da fuoco, più precisamente un fucile calibro 22, che Niki de Saint Phalle rivolgerà contro alcune delle sue opere in una serie di memorabili performance, filmate e con il pubblico presente, realizzate tra il 1961 e il 1964. Durante queste performance, i colpi sparati dall’artista o da altri membri del pubblico, vanno a far esplodere i sacchetti ricolmi di vernice e le bombolette spray che in precedenza sono stati sepolti sotto un candido mantello di gesso, facendo così fuoriuscire il colore che spruzza e cola tutt’intorno al foro del proiettile come se il dipinto stesse sanguinando. Sono i Tirs o Shooting Paintings, opere che ben presto attirano l’attenzione mediatica su questa giovane artista che imbracciando un fucile decide di contrapporsi al mondo, rifiutando di conformarsi agli stereotipi della propria femminile debolezza. Un fucile che Niki de Saint Phalle punterà, avvolta in una tuta da combattente futurista, contro le facciate delle cattedrali e contro le maschere dei politici del tempo – come in un rilievo del 1962 che fonde in un mostruoso corpo femminile bicefalo le figure di Kennedy e Krusciov, in quel periodo impegnati a fronteggiarsi sulla crisi cubana – ma che punterà anche contro la figura del padre in Daddy, un film realizzato molti anni dopo, che faceva i conti con le esperienze della sua infanzia. L’esplosione di questi colpi contro i suoi stessi dipinti, come lei stessa ha dichiarato, erano un gesto fondamentalmente liberatorio, un gesto in qualche modo necessario per potersi sottrarre alla retorica dei buoni sentimenti, all’ipocrisia piccolo borghese, agli opprimenti vincoli sociali e al predominio maschile. Facendo «sanguinare» i propri rilievi, Niki de Saint Phalle, non solo metteva in luce la violenza e le ingiustizie della società di quel tempo ma si preparava a contrapporgli le proprie nana.