Niente di particolare

/ 18.02.2019
di Nicola Falcinella

Un’edizione senza eccellenze, la 69esima Berlinale diretta per la diciottesima e ultima volta da Dieter Kosslick, che ora lascia a Carlo Chatrian, direttamente da Locarno. Sabato sera è avvenuta la consegna dell’Orso d’oro tra i soli 16 film in gara, con il ritiro a gara in corso di One Second del cinese Zhang Yimou, non ancora finito.

Tra i migliori del lotto il macedone God Exists, Her Name Is Petrunya, La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi dal libro di Roberto Saviano e Ondog del cinese Wang Quanan. Nel primo una giovane disoccupata sovrappeso si permette di violare la tradizione durante una cerimonia ortodossa, suscitando la reazione furiosa degli uomini. È l’occasione per una riflessione, condita di ironia, sul maschilismo diffuso.

Giovannesi, dopo Fiore, conferma di saper raccontare i sentimenti dei ragazzini anche in un contesto violento. Qui una banda di adolescenti entra nella camorra e prova a prendere il posto degli adulti. Perdita dell’innocenza e ascesa criminale sono narrati senza un attimo di tregua, senza fermarsi a pensare, proprio come il protagonista Nicola, figlio di una lavandaia del Rione Sanità.

Il regista cinese, già Orso nel 2007 con Il matrimonio di Tuya, ha realizzato una fiaba sui sentimenti e la solitudine nella steppa mongola, protagonista una pastora che sa ciò che vuole. Riuscito anche Grâce à Dieu di François Ozon, su casi di pedofilia da parte di un prete a Lione, riuscendo a evitare eccessi scandalistici e mostrare i diversi gradi di responsabilità e le diverse facce della questione.

Mr. Jones della polacca Agnieszka Holland è un drammone molto classico che porta all’attenzione il giornalista e diplomatico gallese Gareth Jones che all’inizio del 1933 viaggiò a Mosca e in Ucraina sperimentando la fame sofferta dai contadini ucraini mentre il grano partiva per rimpinguare le casse di Stalin. Intrigante e originale e insieme respingente è il franco-israeliano Synonymes di Nadav Lapid, pretenzioso quanto con momenti indovinati. Yoav è un giovane inseguito dai servizi segreti di Israele che si rifugia a Parigi e rigetta la propria origine, iniziando dalla lingua. La struttura disarticolata del film rende la perdita di identità.

Fuori gara Varda par Agnès, con la novantenne grande regista francese (Cléo dalle 5 alle 7, Senza tetto né legge) a tenere una vera e propria lezione sul suo cinema, con umorismo, trovate e soluzioni registiche magistrali. Una cavalcata dagli anni ’50 a oggi spiegando le sue parole chiave «ispirazione, creazione, collaborazione», sottolineando aspetti personali e collettivi di ogni scelta e mostrando come ogni idea si sia concretizzata in immagini cinematografiche.

Ancora una volta il cinema italiano ha presentato storie con protagonisti giovanissimi. In particolare Dafne di Federico Bondi e Selfie di Agostino Ferrente, entrambi già in passato a Locarno, rispettivamente con Mar Nero e L’orchestra di Piazza Vittorio. La prima è una commessa con la sindrome di Down, che, alla morte improvvisa della madre, si trova da sola con il padre anziano. Un viaggio a piedi insieme è metafora di un percorso fattibile, senza patetismi, ma con ironia. Ferrente ha chiesto a due sedicenni di Napoli di filmarsi e raccontare il buono e il cattivo del loro quartiere, il Rione Traiano, in ricordo di un loro amico sedicenne ucciso da un carabiniere in circostanze ancora non chiarite.

Nel Forum molto interessante African Mirror, di Mischa Hedinger, che ricostruisce la figura del viaggiatore e scrittore bernese René Gardi, utilizzando suoi testi anche inediti, fotografie e soprattutto le riprese effettuate sulle montagne del Camerun tra popolazioni non a contatto con gli occidentali. Immagini che confluirono nel documentario Mandara, premiato alla decima Berlinale. Interrogativi posti nel momento della fine dell’epoca coloniale e ancora attuali: lo sguardo di Gardi è paternalistico, ma curioso e interessato al destino di quelle genti, le sue immagini sono preziose ancora oggi.