«Triboulet ha due pupilli, sua figlia e il re: il re che istruisce al vizio, la figlia che alleva nella virtù. L’uno rovinerà l’altra». Se dovessimo scegliere una chiave di lettura per la nuova produzione di Rigoletto del Teatro alla Scala, dovremmo partire proprio da quella frase, vergata con estrema sintesi da Victor Hugo, nell’introduzione al suo dramma più perseguitato – Triboulet, appunto – andato in scena il 22 novembre 1832 alla Comédie-Française e rimosso il giorno dopo dal cartellone con l’accusa di istigazione al regicidio. Da quella vicenda spaccata in due, sarebbe partito Verdi, per raccontare i vizi pubblici del Duca di Mantova e le virtù private del suo buffone di corte Rigoletto; e anche lui avrebbe subito gli affronti della censura di tutto il particolato di baronati, ducati e regni che componevano l’Italia del suo tempo, incluso quello pontificio, per il cui ufficio censorio così si espresse, nel 1853, il sommo poeta Giuseppe Gioachino Belli a proposito dell’opera: «Dal putrido dramma di Vittore Hugo (…) non potea che generarsi una fetida contraffattura».
Ciò che faceva tremare di sdegno quei guardiani tartufeschi della morale pubblica, non era la scabra descrizione del potere corrotto di un principe e della sua corte – che cos’altro avrebbe potuto aggiungere Verdi a ciò che già tutti sapevano? – ma la parola vendetta, scandita con forza dal servo nei confronti del padrone, colpevole di avergli «rovinato» la figlia. Quella vendetta agognata, pianificata ma impossibile da cogliere – perché sul piano etico Rigoletto non è diverso dal Duca – è il nucleo intorno al quale, a ritroso, Mario Martone costruisce l’intero spettacolo, cominciando proprio là dove Verdi si era arrestato. Il regista accoglie, pertanto, l’indicazione del compositore ma non accetta il contrappasso, frutto della maledizione che pende su Rigoletto, come chiave teleologica e punto di arrivo della vicenda del gobbo – che, forse proprio per questo, gobbo non è! La messinscena, ambientata in epoca moderna, rimuove, infatti, quel simbolo lombrosiano della deformità, lasciando al suo posto una più verosimile zoppìa, onde evitare all’ignaro spettatore l’errore di pensare che la manifesta lordura morale del protagonista sia l’esito naturale di un’anima nera come, invece, suggeriscono i cortigiani.
Piuttosto, sembra intendere Martone, è stata la lunga pratica di connivenza con il potere a trasformare Rigoletto: dapprima la maschera del buffone gli ha protetto il volto, poi, a forza di indossarla, l’uno ha preso le fattezze dell’altra. Il mondo esterno e quello interno si sono fusi così come i due lati del palcoscenico girevole su cui è costruita la scena (progettata dalla ticinese Margherita Palli). Da una parte la villa del duca – modernissima e disegnata per accogliere le più sfrenate banalità performative dei tout nouveaux riches – dall’altra, collegati attraverso un passaggio diretto, gli slums dove vivono tutte le vittime e i complici di quelle performance. Tanto è internamente marcio l’uno, quanto sono marcatamente sudici e disgustosi gli altri; e tuttavia, simul stabunt simul cadent. I due lati si sostengono e si compenetrano in un brulichio di citazioni cinematografiche (La grande bellezza, Parasite, Funny Games, etc.) che definisce e limita l’arco vitale di Rigoletto: lo spazio entro cui il fato inesorabile, alla fine, si compirà. Della drammaturgia verdiana – quel «puro gioco tragico», di cui parlava Savinio – il regista non modifica una virgola, a dimostrare che quanto successe allora, succede ancora e continuerà a succedere. A meno che – spoiler alert – la catena non venga interrotta e la vendetta, ultima forma di rivoluzione possibile, riesca infine a trovare una via di compimento.
Per realizzare cotanta visione, la Scala ha messo al servizio del regista un cast di ottimo livello vocale ma disomogeneo e a tratti inverosimile per quanto riguarda l’azione scenica. Impressionante Amartuvshin Enkhbat come Rigoletto. Chi non ha ancora sentito questo nome, dovrebbe presto correre ai ripari, perché qui siamo al cospetto di un gigante della vocalità verdiana: colore scuro e pastoso, acuto scintillante, legato e dizione perfetti. Stereotipato nei gesti, ma col tempo crescerà! Meglio sul versante attoriale la Gilda di Nadine Sierra, sensualissima nelle parti amorose, anche se a tratti opaca e non proprio penetrante nella zona alta della tessitura. Il Duca è notoriamente il personaggio più convenzionale dell’opera e coerentemente il tenore Piero Pretti si limita a vocalizzarlo per bene: cantare è un’altra storia! A chiudere la lista dei protagonisti il sonorissimo Sparafucile di Gianluca Buratto e l’efficace Maddalena di Marina Viotti (Premio svizzero di musica 2022). Fra le parti di fianco occorre segnalare l’ottimo Fabrizio Beggi come Monterone e il precisissimo Costantino Finucci nella parte di Marullo.
E veniamo, infine, alla musica. Il maestro Michele Gamba non accetta il ruolo di concertatore e preferisce distinguersi come direttore d’orchestra: il terrore di perdere il controllo, però, lo trascina al punto di deformare il gesto, intromettersi nelle cadenze e agitarsi senza posa per tenere assieme il coro. La lotta perpetua con i solisti si fa concreta nel duetto finale, dove il maestro, preoccupato dei pizzicati, dimentica che sulla scena si compie il destino di Gilda mentre lui si sbraccia per suddividere la battuta in dodici. Guarda a Muti senza averne il carisma e quello che resta della sua lettura critica è un’esecuzione plumbea, meccanica e piuttosto asettica. Al termine della première lo accolgono sparuti fischi e mugugnii. Sorte peggiore attende Martone, salutato da bordate di disapprovazione. Ovazioni meritatissime, invece, per i cantanti. Si replica fino all’11 luglio 2022.
Dove e quando
Rigoletto, Teatro alla Scala fino all’11 luglio.www.teatroallascala.org