Sua Santità il XIV Dalai Lama Tenzin Gyatso, guida spirituale del popolo tibetano, preferisce definirsi un semplice monaco. Ha compiuto 85 anni il 6 luglio scorso; nato nel Tibet nord orientale da una famiglia di agricoltori, all’età di 2 anni viene riconosciuto come la reincarnazione del XIII Dalai Lama Thubten Gyatso. A seguito dell’invasione cinese del 1959 è costretto all’esilio a Dharamsala, nella vallata di Kangra, vicino ai primi contrafforti himalayani, nel nord dell’India, dove vive tuttora. Per il grande prestigio della sua persona, punto di orientamento per il dialogo interreligioso, per la collaborazione fra monaci buddisti e scienziati di fama mondiale che da sempre promuove, ha ricevuto continui riconoscimenti in tutto il mondo. Nei suoi discorsi ha anche detto che gli occidentali non dovrebbero rinunciare alla religione in cui sono nati. Nel 1989 gli è stato conferito il premio Nobel.
È recentemente uscito La visione interiore, conversazioni con Piero Verni, nuova edizione aggiornata di un testo pubblicato negli anni 90 per le edizioni Red. Raccoglie una serie di colloqui privati che nel corso degli anni il Dalai Lama ha concesso a Piero Verni.
Giornalista, scrittore e documentarista, da oltre 30 anni Piero Verni viaggia, studia e compie ricerche in India e Tibet, godendo dell’amicizia del Dalai Lama. Si tratta dell’unico autore italiano ad averne pubblicato una biografia autorizzata (Edizioni Jaca Book). Domande e risposte di ammirevole chiarezza suddivise per temi in questo scorrevole testo introducono il lettore ai molteplici aspetti del buddismo tibetano detto Dharma, o dottrina buddista. In una lunga intervista di piacevole lettura, guidati dalle vive parole del Dalai Lama, possiamo avvicinare e soprattutto comprendere fondamentali temi spirituali, etici, filosofici e scientifici.
Piero Verni, ci descriva il suo libro.
È un tentativo di fornire al lettore un panorama spero esauriente anche se sintetico, del pensiero e del lavoro di Sua Santità, un’introduzione a quella che senza retorica possiamo considerare una delle più grandi figure del XX e XXI secolo. Come tutte le persone di grande cultura e conoscenza, il Dalai Lama si spiega in maniera esaustiva ma semplice, è facile seguirlo anche quando parla dei concetti più alti e degli orizzonti sconfinati della filosofia e psicologia buddiste. Ho cercato di fare buon uso delle risposte dirette, argute, sincere ed efficaci che «Kundun», come lo chiamano i tibetani, ha sempre dato alle mie domande, anche alle più ingenue e banali, con un linguaggio immediato, fatto di lealtà e candore.
Da decenni Lei ha con il Dalai Lama una assidua frequentazione: come è, visto da vicino?
Vorrei sottolineare la sua capacità di mettere a proprio agio l’interlocutore: dopo le prime domande che gli rivolgi ti sembra di parlare a un vecchio amico che conosci da sempre. Ho avuto la fortuna di poterlo incontrare in molti luoghi e contesti diversi come l’India, la regione himalayana, la Francia, la Germania, la Norvegia e naturalmente anche l’Italia. Ogni volta egli sa riprendere il filo di un discorso interrotto con tutti coloro che hanno avuto a che fare privatamente con lui, ti riconosce immediatamente, ti chiede come va il lavoro. C’è un termine, nel Buddismo tibetano, per definire il maestro che ci indica il sentiero: «amico spirituale», questo è Tenzin Gyatso. Il XIV Dalai Lama del Tibet è un grande amico spirituale di tutti coloro che incontra.
Come noto, egli è costretto a vivere in esilio in seguito all’occupazione cinese; siamo in un momento altamente drammatico nella storia della cultura del Tibet, eppure nel libro il Dalai Lama ci parla di etica, di «politica della gentilezza». Cosa intende?
Sintetizzando al massimo, intende far comprendere che le ragioni del dialogo, della reciproca comprensione, della volontà di vedere le differenze come un arricchimento e non come un ostacolo, dovrebbero essere alla base della comunicazione tra gli individui, le comunità e gli Stati. E ovviamente applica tutto questo alla battaglia non violenta che dal 1950 combatte per sostenere le ragioni del martoriato popolo tibetano.
Nel libro si toccano i temi della ricerca scientifica, della fisica quantistica, di energia e materia: a che livello se ne occupa il Dalai Lama?
Nell’ottobre del 1987 incontrò nella sua residenza indiana di Mac Leod Ganj un gruppo di ricercatori occidentali coordinato dal neuroscienziato e biologo Francesco Varela (1946-2001). Per qualche giorno ascoltò l’esposizione delle teorie scientifiche moderne, tra cui appunto la fisica dei «quanti» e a sua volta spiegò i termini essenziali del pensiero e della filosofia buddista. Fu un incontro estremamente fecondo, seguito da molti altri che videro la partecipazione di alcuni fra i più noti scienziati contemporanei e gettò le basi per la nascita del Mind&Life Institute, oggi uno dei principali luoghi in cui la ricerca scientifica si confronta con le tradizioni spirituali e la pratica contemplativa (mindandlife.org).
Nei suoi discorsi il Dalai Lama ha affermato che gli occidentali fanno male a trascurare o rinunciare alla religione in cui sono nati. Il Dalai Lama è venerato come «reincarnazione del Bodhisattva della compassione universale»: è possibile comprendere questo per noi occidentali?
È uno degli aspetti più difficili da avvicinare per gli occidentali, ma non impossibile. Alla tradizione dei «tulku» (i maestri che rinunciano alla Liberazione continuando a reincarnarsi sulla terra per aiutare con la loro saggezza tutti gli esseri senzienti) ho dedicato uno dei miei ultimi libri (Tulku, le incarnazioni mistiche del Tibet, NdR). Certo per una società come quella occidentale contemporanea, che per il post mortem ipotizza o la triade cattolica Inferno-Purgatorio-Paradiso o, in alternativa, il nulla della cultura atea, accettare questo aspetto della civiltà tibetana non è semplice. Però se si approfondisce l’argomento con mente aperta e disponibile, potranno esserci delle sorprese. Sorprese positive.
Ricorda un momento significativo vissuto vicino a lui?
Sicuramente la consegna del Nobel a Oslo nel 1989. L’Ufficio privato del Dalai Lama aveva cortesemente invitato il sottoscritto alla cerimonia di conferimento. Nel discorso di accettazione il Dalai Lama disse che accoglieva il prestigioso riconoscimento «a nome del popolo tibetano e di tutti coloro che sono sfruttati e privi delle libertà fondamentali». Tra gli invitati c’erano, ovviamente, anche molti tibetani, e come scrissi nell’ultimo capitolo della prima edizione (1990) della mia Biografia di Sua Santità: «Gli occhi dei tibetani sono lucidi di commozione. Dopo aver versato negli ultimi 40 anni tante lacrime di dolore finalmente a Oslo questo popolo piange di gioia».