Nel ventre del teatro

Boîte noire, un viaggio affascinante del poliedrico regista svizzero Stefan Kaegi
/ 27.07.2020
di Giorgia Del Don

La riapertura del Teatro di Vidy di Losanna dopo tre mesi di pausa forzata ha rappresentato una boccata d’aria fresca che potremmo definire come salvifica, tanto la pandemia di Covid19 ha e continua a minacciare il futuro delle arti della scena. Private dell’interazione vitale con il pubblico nello spazio rituale del teatro, queste sono costrette a reinventarsi per sopravvivere, sono obbligate a parlare un’altra lingua per comunicare sensazioni che solo la vicinanza dei corpi riesce a provocare. A lanciarsi in una tale impresa che ridà vita per un’ultima volta a un teatro ormai già quasi moribondo, quello di Vidy, pronto a essere smantellato dando via ad una trasformazione che durerà ben due anni, non poteva che essere l’artista solettese di fama internazionale Stefan Kaegi.

Maestro nel ricreare realtà storiche secondo punti di vista multipli e atipici per scovarne la vera essenza, Stefan Kaegi (con i suoi due «partners in crime» del collettivo Rimini Protokoll: Helgard Haug e Daniel Wetzel) ha accettato la sfida di fare deambulare gli spettatori in solitario nel ventre stesso di un teatro già quasi fantasma(to). Come già mostrato nel 2014 con il suo audio tour Remote X, percorso deambulatorio lungo le strade di differenti città (Remote Libellules nel caso di Ginevra) per 50 spettatori muniti di casco audio, o durante il viaggio in camion, sempre per 50 spettatori, attraverso la periferia di Losanna nel 2018 (Cargo Congo-Lausanne), ogni luogo può essere vissuto differentemente secondo lo sguardo che poniamo su di esso. Uno sguardo carico di un’immancabile soggettività che si mischia a quella delle persone che ci accompagnano durante il viaggio per creare un puzzle di punti di vista che della realtà non ci danno che un assaggio.

Nel caso di Boîte noire, Théâtre-fantôme pour 1 personne (che si è svolto dal 9 giugno al 12 luglio), Stefan Kaegi si è spinto ancora più in là creando un percorso solitario abitato solamente dai fantasmi di un teatro pronto ad andarsene con un inchino. Impossibilitato nel creare (lo scorso marzo) lo spettacolo che aveva previsto di dedicare al mitico teatro di Max Bill (Société en chantier), l’artista svizzero ha deciso di optare per una poesia intimista che sfida le limitazioni attuali riflettendo sul teatro di domani.

Accompagnati dalle voci di quanti hanno amato, abitato ed esplorato il teatro di Vidy: attrici come Laetitia Dosch e Yvette Théraulaz, tecnici del calibro di Bruno Dani, ma anche critici teatrali come Thierry Sartoretti, architetti e storici dell’arte (Matthieu Jaccard), ma anche costumiste e note spettatrici (come l’ex sindaco di Losanna Yvette Jaggi), senza dimenticare le affascinanti osservazioni dello psicanalista François Ansermet, gli spettatori (uno ogni cinque minuti), muniti solo d’un casco audio, penetrano nelle viscere del teatro. Un teatro che appare per la prima volta in tutta la sua complessità rivelandoci le sue debolezze, i trucchi che si nascondono dietro la sua splendente facciata, gli odori (non sempre squisiti) che emanano dalle sue viscere, i dubbi che lo abitano, il futuro che oggi più che mai lo minaccia.

Il percorso che Stefan Kaegi ci invita a fare, tanto eccitante quanto malinconico, trasforma la scatola nera teatrale in spazio museale in cui il teatro si espone in tutta la sua splendente complessità. A fare parlare l’immensità labirintica di Vidy sono le voci che ci accompagnano durante un’ora e mezzo di deambulazione, le vestigia del passato (i messaggi lasciati sui muri, le scatole di fazzolettini abbandonate dalle truccatrici, gli animali impagliati, i costumi di scena,…), le sensazioni che il nostro passaggio imprime nella storia recente del luogo, gli applausi che sembrano riecheggiare nell’immensità della scena principale dove ci ritroviamo scaraventati, (quasi) soli, inermi ed emozionati. È allora che ci accorgiamo quanto la scena sia vitale, catartica, un luogo che dobbiamo a tutti i costi preservare. Cosa resta di uno spettacolo quando il pubblico se ne va, quando gli attori abbandonano i loro ruoli per mischiarsi di nuovo alla quotidianità della vita?

Queste sono le domande che Boîte noire solleva dando alla scena una dimensione tridimensionale. Pubblico, spettatori, tecnici, truccatrici, costumiste, tutti coloro che hanno partecipato all’illusione scenica si ritrovano coinvolti in un rituale i cui effetti si estendono ben oltre la sala da spettacolo, oltre gli spessi muri del teatro, fin dentro il nostro cuore. Un viaggio immaginario al quale Stefan Kaegi dà vita per ricordare a tutti quanto abbiamo (ancora) bisogno della scena, del suo potere sovversivo, della sua capacità di farci sognare senza imporci nessuna limitazione.

Accedere alle viscere del teatro è un po’ come, per riprendere le parole dello psicanalista François Ansermet, esplorare il subconscio del subconscio, un luogo nel quale nemmeno Freud ha osato avventurarsi. Invece di togliere allo spettacolo la sua magia, il viaggio che Stefan Kaegi ci invita a fare ne amplifica il fascino e moltiplica i misteri. Boîte noire è un’esplorazione archeologica che si compie in solitaria ma che ci fa riflettere sul senso della comunità che la pandemia mette pericolosamente a repentaglio.

È infatti attraverso l’incontro dei nostri corpi, custodi di personalità complesse e impaurite, che le arti della scena ci trasformano. Come dei visitatori venuti dal futuro, osserviamo le vestigia di un universo scenico che ci sembra ormai già molto, troppo lontano. Coscienti di quanto potremmo perdere, gustiamo l’ebbrezza di un luogo che fra poco non esisterà più, ci lasciamo trasportare dalla nostalgia dell’effimero sognando di poter ben presto tornare a sederci sulle poltroncine rosse di una scena sognata.