Il nome Víkingur Ólafsson potrebbe far pensare ad una sorta di Han d’Islanda del pianoforte, se il trentaseienne pianista cresciuto a Reykjavik non fosse quanto di più lontano dal sanguinario bruto immaginato da Victor Hugo nel suo romanzo omonimo.
Nato in una famiglia di musicisti educati a Berlino nel culto del grande leone del pianoforte sovietico, Emil Gilels, perfezionatosi nella palestra musicale della Julliard School di New York, il suo pianismo è stato paragonato, dopo l’incisione degli ipnotici Studi di Philip Glass e soprattutto di una successiva scelta di brani bachiani (Album dell’anno 2019 per la rivista musicale della BBC), a una versione norrena del mistico artista canadese Glenn Gould. La sua personalità è certamente quella di un artista che pensa prima di suonare e che ha filtrato il suo suono cristallino e lucente attraverso il prisma dell’intelletto. Non solo. Si sentono ben presenti nella fermezza della sua articolazione sia la sua apertura mentale che le esperienze di remixaggio di brani bachiani compiute negli ultimi anni con dj e ingegneri sonori, incrociando le clausole antiche fra minimalismo, punk rock e suoni metal.
Per capire le radici del suo pianismo e comprendere la composizione della sua speciale sensibilità artistica è utile conoscere le passioni di Ólafsson verso i maestri del pianoforte. All’ammirazione per la tersa lucidità del primo Maurizio Pollini (quello rivelato dalle incisioni degli Studi di Chopin e dei 3 pezzi di Petruska di Stravinski), si è aggiunto l’entusiasmo per la tavolozza coloristica di Martha Argerich («dipinge con i suoni con l’andamento rapsodico del ritmo»). Su tutti domina il magnetico Arturo Benedetti Michelangeli: «il pianista a cui guardo più di ogni altro negli ultimi anni quando si tratta di questioni relative ai coloriti, alle strutture e, in qualche modo, alla linearità dell’espressione».
Da poche settimane è uscito un nuovo album pubblicato da Deutsche Grammophon, la storica etichetta tedesca a cui è legato da un contratto esclusivo, che alterna brani di due compositori francesi, il grande armonista settecentesco Jean-Philippe Rameau e il poeta dell’impressionismo a cavallo fra Otto e Novecento, Claude Debussy.
Non è storicamente inedito accostare pezzi di Rameau (Ólafsson lo definisce «un Newton dell’armonia» che rivela sempre il suo «senso armonico tattile») a Debussy. Claudio di Francia, infatti, non solo amava molto la nobile melanconia del grande maestro clavicembalista, ma è anche autore nel primo libro delle sue Images di un elusivo Hommage à Rameau (incluso ovviamente in questo album e che Ólafsson definisce «un cenno, non un inchino di un grande artista verso l’altro: il riconoscimento di una relazione spirituale, piuttosto che la gratitudine di un discepolo verso il maestro»). Molto più raro è suonare entrambi gli autori con uguale naturalezza digitale e brio d’intelletto, affratellando due grandi musicisti di epoche tanto distanti senza tesi cerebrotiche.
Debussy e Rameau condividono titoli immaginifici e richiami sinestetici: tourbillons ramisti e piogge nei giardini debussiani, gighe e rigodoni barocchi si alternano a bambole infantili e fiocchi di neve ovattati nell’ansia, danzando intorno all’ascoltatore, il quale, senza accorgersene è già entrato fra i sortilegi del reame delle arti.
Nel reame delle arti con Víkingur
Deutsche Grammophon ha dato alle stampe Debussy-Rameau nell’interpretazione del pianista islandese Víkingur Ólafsson
/ 20.07.2020
di Giovanni Gavazzeni
di Giovanni Gavazzeni