Di solito si dice visitare una mostra, stavolta però bisognerebbe parlare di un’esperienza «full immersion», un vero e proprio viaggio in un territorio vasto come un Continente (6 milioni di kmq contro i 4 dell’Europa). Ci fanno da guida Sebastiāo Salgado e sua moglie Lélia Wanick e ci accompagnano le musiche che Jean Michel Jarre ha composto ispirandosi ai suoni della foresta, ai canti degli indigeni e ai ruggiti/grugniti degli animali: suoni propedeutici per completare l’esperienza della visione. È un’emozione entrare negli spazi della Fabbrica del Vapore a Milano, oscurati per l’occasione: Amazônia, questo il titolo dell’esposizione già apprezzata da quasi un milione di visitatori in un tour mondiale approdato a Milano, ma da poco visitabile anche alla Maag Halle di Zurigo fino al 24 settembre.
Il fotoreporter non mostra un paradiso in fiamme, ma la sua gente
È il frutto di anni di lavoro svolto tra mille difficoltà: autorizzazioni da richiedere alle varie amministrazioni locali e ai capi tribù; logistica da improvvisare giorno per giorno portandosi appresso pannelli solari per ottenere elettricità, nonché cibi cucine e cuochi per garantirsi la sopravvivenza; mezzi di trasporto talvolta pericolosamente al limite dell’affidabilità: piroghe, battellini e canoe fluttuanti tra una fauna non proprio domestica! Dalle 250 immagini dell’expo, e dai filmati che l’affiancano, ri/emergono chiaramente due spunti di interesse che da decenni caratterizzano opera e ricerca di Salgado: la dignità dell’uomo (una fiammella sempre accesa, anche in ambienti precari e inospitali per non dire ostili) e la sua attenzione da un lato – appunto – antropologica, dall’altra per la potenza della natura in tutte le sue manifestazioni: antiche quelle geologiche, quotidiane quelle meteorologiche. Scopriamo così dapprima che l’Amazzonia non è affatto piatta come forse vorrebbe l’immaginario collettivo, bensì ospita vere catene montuose tra le più alte del Brasile, con alcune vette che superano i 3 mila metri d’altitudine; poi dell’esistenza dei cosiddetti fiumi volanti, corsi d’acqua creati dall’estrema umidità di miliardi di alberi: ruscelli torrenti e veri fiumi che poi spariscono dopo qualche rara giornata di siccità in quella foresta pluviale comunemente definita «il polmone del mondo». Un polmone minacciato dall’ingordigia di chi la saccheggia da decenni alla ricerca non solo di legname perpetuando uno scempio purtroppo accelerato dall’ex presidente Bolsonaro, il quale voleva raderne al suolo qualche migliaio di kmq (!) per istallarvi nuove industrie brasileire. «Per fortuna avevo ultimato il mio lavoro quando questo personaggio è arrivato al potere!», ha esclamato Salgado nel corso della conferenza stampa di presentazione della mostra. Il fotografo aveva tuttavia già scelto di non mostrarci l’Amazzonia in fiamme, devastata e violata, puntando viceversa su quella sua biodiversità che «tutti noi dobbiamo ammirare e soprattutto proteggere». È indubbia – al di là del piacere estetico – l’importanza etico/sociopolitica della sua opera, che però il reporter Salgado (visitati 130 Paesi del mondo) minimizza con l’umiltà dei veri grandi: «Scatto quasi sempre con un centoventicinquesimo di secondo d’apertura dell’obiettivo. Dunque queste 250 immagini mi sono costate solo due secondi della mia vita»; dimenticando però che per ottenerle gli ci sono voluti quasi dieci anni! Il rispetto che Salgado dimostra sempre verso chi finisce davanti alla sua apparecchiatura è testimoniato anche stavolta, però con un’attenzione in più: per esaltare tatuaggi e particolarissimi ornamenti sfoggiati talvolta dagli indios, ha creato uno studiolo ambulante – 6x4 metri – montato per sistemare i suoi protagonisti davanti a un fondale nero e poi riposto per ripartire verso nuove avventure, talvolta accompagnato da mediatori e traduttori. Nei suoi 58 viaggi in Amazzonia («Una volta ho navigato per oltre un mese su una piroga senza mai toccare terra. Si sa quando si parte senza sapere quando si arriverà»), Salgado ha infatti scoperto che laggiù vivono quasi duecento comunità diverse e si parlano 186 (!) lingue differenti. «È stato impossibile raggiungerle tutte, ma ho visto popoli che vivono come diecimila anni fa, scoprendo altresì che ci somigliamo quasi in tutto». Anche le didascalie delle foto testimoniano il suo affetto verso le popolazioni indigene: ogni persona – anche nelle foto di gruppo – è identificata con nome, cognome (più sovente il suo soprannome), tribù d’appartenenza, luogo e data del ritratto. Ecco dunque Haitschù Kuikuro bardato da guerriero e con un copricapo di piume simile a quelli dei Pellerossa, la bellissima adolescente Rosana Kaitsalò mentre viene tatuata in vista della sua cerimonia di iniziazione nel Mato Grosso, dove un felicissimo Pirakuma Kamaiurà non sa più dove sistemare i pesci pronti per la festa e la griglia. Pesci che invece, ritto sulla canoa e imbracciando l’arco, Wewito Piyako cerca ancora di trafiggere lungo il corso del Rio Amònea, Stato dell’Acre. O ancora lo sciamano Angelo Barcelos invocare gli spiriti per superare le asperità del Pico da Neblima (nebbiolina in portoghese), la più alta vetta del Brasile coi suoi 3114 metri d’altezza, ritenuta sacra e inviolabile dagli indigeni e perciò scalata solo nel 1965 da alcuni soldati dell’esercito brasiliano. Un esercito da sempre ben presente in Amazzonia soprattutto per controllare il traffico di droga e adesso – con l’arrivo di Lula da Silva al Palazzo presidenziale – impegnato anche per organizzare il più presto possibile gli interventi in caso d’incendio. A bordo di elicotteri e velivoli militari, Salgado ha potuto realizzare foto a 180 gradi, vedute che il suo proverbiale quanto incisivo bianco e nero rende davvero mozzafiato.
Parte integrante dell’esposizione pure due sale di proiezione: la prima ci presenta il sontuoso paesaggio amazzonico con le note elegiache e poi aggressive del poema sinfonico Erosão (1950), opera del compositore brasiliano Heitor Villa-Lobos. Poi i ritratti di uomini e donne che abitano la foresta con il sottofondo della musica new age di un altro e più giovane musicista carioca, Rodolfo Stroeter. Una colonna sonora voluta da Lélia Wanick, da sessant’anni compagna artistica e di vita del fotografo («Senza la mia Lélia non ci sarebbe stato Salgado»!) per il suo geniale quanto coinvolgentissimo allestimento.
«Ho voluto creare un ambiente in cui il visitatore si sentisse integrato nella vegetazione della foresta»
«Con Amazônia –spiega la Signora – ho voluto creare un ambiente in cui il visitatore si sentisse all’interno della foresta, integrato con la sua esuberante vegetazione e con la vita quotidiana delle popolazioni indigene. La mia idea era quella di presentare le immagini, accompagnate da testi pertinenti, in modo da sottolineare la bellezza di questa natura e dei suoi abitanti, nonché la sua dimensione ecologica e umana, tutti elementi che oggi sono così minacciati e che è dunque fondamentale proteggere e preservare». Preoccupati per il grave degrado ambientale del «polmone del mondo», i Salgado hanno creato nel 1998 «Instituto Terra», che ha sinora messo a dimora più di tre milioni di alberi partendo dai dintorni della fattoria gestita un tempo da papà Salgado e che, alla morte di quest’ultimo, la coppia ha ritrovato completamente deforestificati.
«Il mio desiderio, con tutto il cuore, con tutta la mia energia e con tutta la passione che possiedo – ha concluso Sebastiāo Salgado l’incontro con la stampa – è che tra cinquant’anni questa mostra non assomigli a una testimonianza di un mondo perduto».
Parole su cui c’è molto da riflettere.