È del 2014 un’antologia di racconti natalizi dal titolo accattivante, che richiama il noto incipit de La terra desolata di T.S. Eliot, Il giorno più crudele – Il Natale raccontato da dodici grandi scrittori (ISBN edizioni). Di per sé l’idea era brillante: riunire in volume quei brani che consegnano un’autentica immagine della festività; sì, perché, come molti potranno confermare, la ricorrenza più e più volte, in famiglia come altrove, non è propriamente idilliaca.
Ma oltre le possibili liti, le incomprensioni e i nodi che, almeno una volta all’anno, vengono al pettine c’è dell’altro: il Natale ci riporta a una dimensione di mistero perduto, di attesa e di vano desiderio del miracolo. Col Natale, forse, il fantasma del bambino che eravamo torna a sbirciare il cielo freddo nella speranza di ritrovare un brandello di quella grande patria che è l’infanzia (Baudelaire).
Per queste ragioni la citata crudeltà eliottiana sembra calzare a pennello, come un gelido guanto, alle ore che accerchiano la mezzanotte del 24: dove cade il velo dell’illusione, ci si scopre come espulsi dall’incanto, preda di una pungente nostalgia; e a ciò si sommano la ruvidezza degli eventi e la memoria di quanto è stato.
Non a caso molti scrittori hanno ambito a scrivere «il proprio» racconto di Natale: l’antologia annovera Andersen, Čechov, Collodi, Maupassant, ovviamente Dickens... ma anche Dostoevskij, Gogol’, Henry e altri ancora. Non c’è che dire, Il giorno più crudele raccoglie pagine dei più grandi autori della letteratura mondiale... eppure, strano a dirsi, presto la sua lettura cessa di ammaliarci. Sarà forse perché nessuno dei testi scelti, a mio avviso, risulta davvero crudele, perché quando si tocca una data tematica le aspettative sono alte o, ancora, perché quella che si propone come un’operazione originale altro non è, in fondo, che una trovata editoriale.
Dove andare a pescare allora, in letteratura, un sentimento vero e spietato che, in modi diversi, ci parli della festa della natività? Dove trovare quella inconfondibile sensazione che, ad esempio, ha certamente saputo cogliere Ingmar Bergman con quel capolavoro che è Fanny e Alexander?
Subito due esempi vengono in soccorso. Il primo, che è davvero celebre, si legge ne Il porto sepolto, fra le poesie de L’allegria (1919) di Giuseppe Ungaretti, e si intitola Veglia – molti, probabilmente, come il sottoscritto, l’avranno incontrato sui banchi delle superiori.
Nel 1915 il poeta era mobilitato nel Carso, sul Monte San Michele, mentre attorno infuriava la guerra. «Incomincio Il porto sepolto, dal primo giorno della mia vita in trincea», racconta, «e quel giorno era il giorno di Natale (...). Ho passato quella notte coricato nel fango, di faccia al nemico che stava più in alto di noi ed era cento volte meglio armato». Quindi, per se stesso e non per altri – poiché «quei foglietti», dapprincipio, «non erano destinati a nessun pubblico» ma al proprio «esame di coscienza» – la notte dell’antivigilia Ungaretti scrisse i celebri versi: «Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio / con la congestione / delle sue mani / penetrata / nel mio silenzio / ho scritto / lettere piene d’amore // Non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita».
Come Wittgenstein ebbe la forza di forgiare il suo Tractatus sotto le bombe, con l’esperienza estrema de Il porto sepolto Ungaretti confermò quanto poi avrebbe sostenuto nelle pagine di Ragioni d’una poesia; e cioè «che in arte, sì, contavano la pazienza, la tradizione – e contava, in realtà, solo il miracolo»: infatti, proprio come un miracolo, nel macello della Grande Guerra la poesia – una poesia nuova, necessaria, violentemente autonoma – lo soccorse dagli eventi alle soglie della notte santa.
Il secondo esempio invece è meno conosciuto, ma non meno bello. Si tratta della poesia Ô Douce Nuit del pittore e regista Tadeus Kantor – la si può leggere in Il teatro della morte. Qui, descrivendo una di quelle notti ora «perdute nel calendario», l’artista polacco rievoca il momento dell’attesa come quello in cui entrò in contatto con l’essenza stessa del segreto: «Poi siamo corsi giù / verso la stalla, / per sentire come gli animali / parlano la lingua degli uomini. / Di colpo sono arrivate le slitte, / il cocchiere con una torcia, / siamo saliti in quelle slitte / e raggomitolati aspettavamo... / I bambini aspettano sempre qualcosa d’importante... / Durante una notte simile, può succedere di tutto».
Poi anche Kantor, come Ungaretti, ci parla dell’arte come di un evento magico: «È stato in una notte come quella che / cominciò il mio teatro, / la Povertà, / la felicità e i PIANTI, / e l’amore... / Lentamente si compiva il / miracolo, / l’arte». Ma ciò che pervade il testo dal principio alla fine è, soprattutto, un sentimento ineludibile di perdita che attraversa ogni immagine quasi fosse una crepa; la notte, quindi, diventa «una fanciulla / amata / attesa con nostalgia» e in un goffo «San Nicolò» l’occhio infantile già riconosce il sagrestano travestito.
Che dire: una festa di dolore e amore, quella del Natale, dove sembra coagularsi un insieme di significati per nulla scontati; e se gli esempi menzionati dovessero risultare troppo colti o poco convincenti a questo punto si consiglia, anche, di non disdegnare la visione di Gremlins né di Nightmare Before Christmas.