Musica rock viscerale ed elevata

Il più recente live di David Gilmour regala agli ascoltatori un prezioso momento
/ 20.11.2017
di Benedicta Froelich

In un’epoca come la nostra, in cui la superficialità e la banalità musicale imposte da uno «star system» pervasivo e ormai dittatoriale spingono sempre più amanti del pop-rock angloamericano a rimpiangere i fasti degli anni 60 e 70 – e a cercare rifugio nell’ascolto del materiale di allora – potrebbe sembrare francamente esasperante l’idea di trovarsi a recensire un album come il nuovissimo Live at Pompeii di David Gilmour.

Infatti, seppure il suo nome non necessiti di presentazioni, la poco prolifica carriera solista dello storico chitarrista dei leggendari Pink Floyd (che, insieme all’inquieto Roger Waters, è stato la principale «mente» dietro ai successi del grande gruppo inglese) è sempre apparsa come in equilibrio assai precario tra un evidente desiderio di personale indipendenza artistica e gli inevitabili, costanti riferimenti alla produzione della band di provenienza. Tanto che questo live album, frutto di due serate (7 e 8 luglio) tratte dalla tournée intrapresa dall’ormai 71enne David nel 2016, appare di primo acchito come un evidente caso di fedeltà al passato: nello specifico, in riferimento alla scelta di uno scenario come quello del meraviglioso anfiteatro romano di Pompei, al quale Gilmour ha fatto ritorno per la prima volta a ben 45 anni di distanza dalla realizzazione dell’omonimo film Live at Pompeii, girato dai Pink Floyd nel 1972: un lavoro indimenticabile, presente nel DNA di chiunque sia cresciuto ascoltando la migliore musica di quegli anni.

E seppure sia quantomeno difficile riuscire a ricreare un’esperienza di ascolto paragonabile alla connotazione quasi mistica della performance originale dei Pink Floyd (che, per inciso, all’epoca suonarono senza pubblico e in solitudine totale, godendo appieno della sacralità e inquieta soggezione ispirata dal luogo), nella sua personale esibizione pompeiana David può vantare il privilegio derivante dall’essere protagonista del primo evento pubblico mai svoltosi all’interno dell’anfiteatro dai tempi dei gladiatori; in più, l’atmosfera già di per sé suggestiva è favorita da una scaletta che presenta un interessante mélange tra brani recenti a firma del solo Gilmour (5 A.M., On an Island, Faces of Stone) e una nutrita schiera di classici dei Floyd.

I musicisti che accompagnano David sono in parte i medesimi del Live in Gdansk pubblicato nel 2008, e anche l’impostazione generale dello show è simile, dal momento che i due dischi mostrano ben otto tracce in comune; tuttavia, lo scenario memorabile e la perfetta forma di Gilmour rendono questo doppio CD (disponibile anche sotto forma di DVD) particolarmente succoso per i fan, anche per via del tributo dedicato dall’artista al recentemente scomparso Rick Wright, indimenticato tastierista dei Floyd. In suo onore, David si produce in un trittico composto, oltre che da The Blue (originariamente apparsa nel 2015 in On an Island, con l’ausilio dei backing vocals dello stesso Wright), anche da A Boat Lies Waiting e, soprattutto, dal mitico The Great Gig in the Sky, uno dei brani più memorabili dell’eccelso The Dark Side of the Moon; anche se purtroppo, nella versione qui presentata, questa gemma soffre dell’assenza dell’insostituibile vocalist originale, Clare Torry, non adeguatamente rimpiazzata dagli attuali coristi di David.

A parte simili scivoloni, bisogna tuttavia ammettere che la tracklist scorre in modo impeccabile dall’inizio alla fine, offrendo esecuzioni irreprensibili di brani perlopiù eccellenti, tra cui molti davvero indimenticabili: si passa così da veri e propri capisaldi del repertorio come il grintoso Run Like Hell (qui notevolmente valorizzato dagli sforzi congiunti di coristi e musicisti) e il sempre straziante Comfortably Numb alle più recenti incursioni soliste di David, quali, ad esempio, la title track e alcuni brani dell’album Rattle That Lock, pubblicato proprio nel 2016; anche se, per certi versi, stupisce il fatto che lo show offra soltanto un brano tra quelli presenti nell’originale Live at Pompeii del ’72 (One of These Days, comunque sempre efficace nella sua epicità tipicamente floydiana).

Certo, non si può negare che quest’album possa forse apparire agli ascoltatori casuali come l’ennesima, superflua riproposizione di un repertorio ormai storico da parte di un «dinosauro del rock» quale David Gilmour; eppure, Live at Pompeii è molto più di questo. In un certo senso, rappresenta il trionfo non solo della professionalità, ma anche della musica cosiddetta «vera» – ovvero, contraddistinta da autentico spessore e profondità emotiva e intellettuale – sul succedersi forsennato di mode ed effimere novità che ha caratterizzato gli ormai cinque decenni trascorsi dagli esordi dei Pink Floyd. In tal senso, dischi come questo non appariranno mai obsoleti o inutili; e, anzi, saranno destinati a rappresentare future, preziose testimonianze del vero senso della musica rock – di come esso non risieda soltanto in abiti succinti e mosse provocanti, ma in qualcosa di ben più viscerale ed elevato.