Giunti nel punto equidistante dai due anniversari che celebrano in questi mesi la figura di Vincenzo Vela, i duecento anni dalla nascita (maggio 1820) e i 130 dalla morte (ottobre 1891), ci siamo ritrovati tra le mani una piccola messe di pubblicazioni assai eterogenee per stile e contenuti, tese però tutte a favorirne la persistenza del nome, tra i massimi dell’Ottocento europeo, e l’ininterrotto dialogo con la contemporaneità. Regista di questa vasta operazione, non c’è quasi bisogno di dirlo, la Casa-Museo di Ligornetto, diretta oramai da molti anni da Gianna Mina.
Sul mio tavolo stanno quindi nell’ordine: un mastodontico e rigoroso carteggio in tre volumi, opera di impostazione accademica curata da Giorgio Zanchetti per le Edizioni dello Stato del Cantone Ticino (collana «Testi per la storia della cultura della Svizzera italiana», vol. 15); una curiosa graphic novel, illustrata da Hannes Binder con didascalie poetiche di Alberto Nessi, dedicata alla vita di Vela ripercorsa a ritroso dai protagonisti del suo capolavoro più tardo, Le vittime del lavoro (la pubblicazione è, non per caso, sostenuta dalle FFS in occasione del completamento di Alptransit); infine, edita come la precedente da Casagrande di Bellinzona, una non esile antologia poetica di cui non dirò nulla per essere io stesso piccola parte in causa, ma della quale colpisce senz’altro la vastità degli stimoli proposti dagli autori, non circoscritti alle solite 2-3 sculture più note, come se ognuno fosse riuscito a ritagliarsi con originalità un proprio Vela. La forma stessa di questi tre titoli dichiara la diversa destinazione dei volumi, fermo restando il desiderio comune a tutti di andare al fondo della vita e dell’opera dell’artista ticinese.
E qui sorge spontanea una domanda: quando «nasce» il celebre scultore? A che altezza cronologica Vela inizia ad essere inequivocabilmente Vela, e lui solamente, senza più ombra di esitazione? Altrimenti detto: dove si situa la sua più pura identità, l’essenza in grado di garantirne lo status di artista privilegiato non solo durante la sua epoca, ma ancora in questi tempi contraddistinti da una memoria storica così breve? Il confronto con gli scultori attivi in Ticino nella seconda metà del XIX secolo, da Raimondo Pereda a Luigi Vassalli alla pur bravissima Adelaide Maraini-Pandiani, non potrebbe essere infatti più schiacciante. Vela era un mito e, quel che più colpisce, non ha mai veramente smesso di esserlo. Se possibile, la sua caratura è cresciuta con il tempo invece di diminuire.
Quel luogo, lo spazio fisico e mentale in cui l’artista di Ligornetto divenne per sempre tale, si trova a Lugano, nell’atrio di ingresso di Palazzo Civico, ed equivale al metro scarso che separa il ritratto del vescovo Giuseppe Maria Luvini (1845) dall’indimenticabile tensione dello Spartaco (1847), opera che come ebbe a scrivere Carlo Cattaneo congiunge «la semplice verità della forma alla potenza dell’affetto». Per qualche mese lo Spartaco sarà ancora dislocato nella sede del MASI di Palazzo Reali, ma una volta ritornato al suo posto risulterà di nuovo evidente il balzo tra la pur apprezzabile figura del cappuccino luganese, divenuto vescovo di Pesaro nel 1785, e l’incarnazione stessa della lotta per la libertà, emblema di ogni moto democratico. Tra i due, opera del 1846, la commovente Preghiera del mattino, altra cifra stilistica di Vela, altra personificazione altissima di un concetto simbolico che non rinuncia a una resa mimetica degna della più grande letteratura verista.
Quanto il mito di Vela sia stato precoce e in molta misura debitore proprio delle opere scolpite in quegli anni, tra il 1845 e il 1847, traspare anche dalla lettura del corposo carteggio, curato da Zanchetti partendo da materiali conservati all’Archivio federale di Berna (le lettere dei corrispondenti e alcune minute dello stesso Vela) e da una vasta ricognizione in altri archivi sparsi tra Italia, Svizzera e Francia, cioè i principali luoghi di attività dello scultore. «Quando ci rivedremo» gli confidava il 18 settembre 1855 lo scrittore Andrea Maffei «ti parlerò delle cose vedute a Parigi ed altrove: sappi intanto che fra la tua statua [lo Spartaco] e le altre esposte c’è un abisso di mezzo».
Tra la Torino di Vittorio Emanuele II e la Parigi di Napoleone III, sovente in contesti che non corrispondevano in toto alla posizione politica dello scultore, ma che certo gli diedero molte soddisfazioni professionali, si giocano gli ultimi anni della sua carriera, funestati però anche dall’insuccesso clamoroso del progetto ginevrino per il monumento commemorativo al Duca di Brunswick, 1873-78, che assume nell’epistolario un peso preponderante (150 lettere su poco più di un migliaio).
I testi scritti di proprio pugno da Vela, circa un terzo del totale, ne restituiscono il carattere mite ma fermo e, sotto il profilo linguistico, una buona capacità di scrittura: «Deve il sottoscritto esprimere a codesta Inclita Academia di Belle Arti la propria riconoscenza per l’onore che le piacque impartirgli...» (13 luglio 1852, per il gran rifiuto a socio onorario dell’austriacante Accademia di Brera). Dotato di una cultura letteraria non di secondo piano, necessaria a un artista di dichiarate ambizioni intellettuali, al poeta del Cinque maggio Vela mandò nel 1866, per segnare un comune sentire, una fotografia del suo Napoleone morente con questa dedica manoscritta: «A Alessandro Manzoni, dal cui Canto Immortale invocò il soffio ispiratore V. Vela».
Invano si cercherebbe però nel carteggio, nonostante il numero dei corrispondenti (469), uno scorcio di vita non professionale e, anche di quelli, quasi solo gli aspetti meno problematici. La selezione operata dalla moglie Sabina Dragoni ci consegna un artista che solo a tratti mostra i suoi veri tormenti. Ad esempio nell’allusione feroce di George Thomas Smith, tra i committenti del monumento a Carlo di Brunswick, secondo il quale il progetto di Vela sarebbe stato opera di un ubriaco («the result of a Bacchanalian inspiration», 22 giugno 1877), in linea con quanto ebbe a scrivere a Giuseppe Verdi la contessa Giuseppina Negroni all’indomani della scomparsa dello scultore: «Che peccato che quell’uomo di tanto ingegno, d’eccellente carattere, modesto e generoso, si sia lasciato dominare dal vizio del vino che lo trasse alla tomba innanzi tempo» (8 ottobre 1891, non compresa in questo carteggio, comprensibilmente, perché lettera di terzi a terzi).
Soltanto allargando il quadro ad altri documenti coevi, non per indulgere al pettegolezzo bensì per cogliere la natura anche drammatica del rapporto dell’artista con la propria epoca, si potrà raccontare per davvero questa storia. Intanto bisogna comunque essere grati a chi ha inteso, con grande sforzo e competenza, aumentare la mole dei documenti a disposizione degli studiosi.