Non sono più qui, recita il titolo del lungometraggio messicano di Fernando Frías de la Parra, candidato come miglior film straniero ai prossimi Oscar, che si terranno, ovviamente in «modalità covid», il 25 aprile. Un’assenza, quella annunciata nel titolo, che non è solamente fisica, ma che tende a rappresentare quel vuoto di senso e di speranza che contraddistingue a volte le vite degli ultimi e dei dimenticati.
Siamo a Monterrey, in Messico, in un quartiere dominato dalla miseria e in cui i cartelli della droga prendono ogni giorno più piede, non da ultimo perché, a differenza dello Stato, si fanno carico di approvvigionare la popolazione di cibo garantendo al contempo una forma di sicurezza.
Il protagonista Ulises (recitato dallo straordinario Juan Daniel García Treviño), inconfondibile zazzera da galletto e vestiti larghissimi, vive solo per la cumbia, genere di danza originariamente proveniente dalla Colombia. Fa parte dei terkos, una piccola gang di quartiere tutto sommato innocua, appunto perché si dedica prevalentemente alla danza. Le sue giornate trascorrono serene fino al giorno in cui la sua umile ma poetica traiettoria entra in conflitto con quella delle persone sbagliate, catapultandolo così in una situazione di pericolo tale da doversi mettere in salvo – clandestinamente, va da sé – negli USA.
La pellicola, fortemente amata da Alfonso Cuarón e Guillermo del Toro (che hanno fatto di tutto per candidarla agli Oscar) e Almodóvar (che l’ha definita la migliore dell’anno), grazie a una fotografia quasi sospesa e alla bravura interpretativa di García Treviño, senza alcuna formazione attoriale, ma preso direttamente dalla strada, già dopo poche scene si rivela per quello che è: un piccolo capolavoro della contemporaneità, dove la violenza e l’inderogabilità di un certo tipo di destino, sono contrastate dall’arma più potente ed efficace che si possa immaginare, la musica. Diventano quindi quasi ipnotiche le bellissime scene di danza d’insieme, dove ballerine e ballerini dimenticano per un istante l’incerto quotidiano, per sprofondare con dedizione quasi mistica in uno stato di ipnosi collettiva.
Ya no estoy aquí, ora su Netflix, si trasforma dunque in un bruciante ritratto dell’attualità, delle problematiche legate ai flussi migratori, alle gang e all’alienazione personale, ma è anche grande cinema in stato di grazia. Per quelle atmosfere, che non dimenticheremo tanto facilmente, e per una storia, che più intima e meglio raccontata di così non si poteva.