È divenuta ormai consuetudine che ogni nuova produzione del Festival di Bayreuth vada in scena con nomi diversi da quelli annunciati: così questo Lohengrin non ha come interprete Roberto Alagna, ma Piotr Beczala, e come regista non il lettone affermato Alvis Hermanis, ma il giovane americano Yuval Sharon. Dunque a Bayreuth sono in arrivo i divi internazionali (e anche le dive, se è vero che l’anno prossimo passerà di qui Anna Netrebko) della lirica e ciò fa sì che per alcuni aspetti questo festival tenda ad assomigliare sempre più ad altri. Ma rimane anche terreno per sperimentazioni, come nel caso di Sharon che a Los Angeles ha il suo gruppo teatrale e allestisce spettacoli in luoghi diversi dal teatro. Il pubblico dei fedeli di Bayreuth era curioso di vedere se il nuovo Lohengrin avrebbe battuto in audacia il «Lohengrin dei topi» di Neuenfels che ha tenuto banco per anni nelle conversazioni al ristorante, in albergo, al Biergarten o al parco, a due passi dalla tomba di Wagner.
Ricordando che Wagner compose Lohengrin negli anni rivoluzionari delle barricate di Dresda che lo portarono a fuggire con Bakunin verso un lungo esilio in Svizzera, il regista si inventa che la comunità brabantina attraversi un momento di declino a causa della mancanza di elettricità e che in Lohengrin s’incarni il salvatore, cioè il portatore d’elettricità. La scena è dunque buia, su toni che dal celeste trascorrono al blu notte. E in tuta celeste da operaio (ma con il fulmine in mano, a mo’ di Zeus o moderno Prometeo) si presenta Lohengrin, senza navicella e senza cigno, vicino agli ideali di un Lenin, che – ci informa il regista – volle anche lui elettrificare la Russia. L’arrivo dell’elettricità sulle rive della Schelda è sancito dall’irruzione in scena di un vivissimo color arancio che squarcia il blu della tenebra fondamentalista, poiché oscurità e oscurantismo vivono a braccetto nel ducato di Brabante fino all’arrivo di Lohengrin.
Le scene e i costumi sono opera di due pittori, Neo Rauch e Rosa Loy, che sembrano ispirarsi al mondo delle fiabe, mondo al contempo infantile e terribile. In questa visione la donna è demonizzata e Ortrud non è poi così cattiva, anzi aiuta Elsa a liberarsi dalla sudditanza nei confronti del maschio oppressore. Lohengrin infatti nonostante le sue qualità di leader, in privato è un qualsiasi prepotente che non tollera dinieghi in camera da letto. Elsa liberata, divenuta forte e pronta ad affrontare il mondo, avrà da Lohengrin il dono dell’elettricità che viene negata al popolo di Brabante, ma sarà un dono nuovo, una nuova energia, pulita ed ecologica, che ha le fattezze del fratellino perduto, il Gottfried tutto verde e luminoso che l’accompagna nel finale.
I personaggi principali sono muniti di ali da insetti e il rapido duello fra Lohengrin e Telramund si svolge nell’aria, con gran divertimento del pubblico. Il cast offre due splendide interpreti femminili, la fremente Anja Harteros, che con Elsa ha una lunga frequentazione, e la grande Waltraud Meier, che con Orturd fece il suo debutto sulle scene. Beczala propone un Lohengrin «all’italiana», forte del fatto che proprio questa è considerata l’opera più «italiana» di Wagner. Georg Zeppenfeld è un re Enrico potente e convincente, mentre il Telramund di Tomascz Konieczni è ridotto a una sorta di macchietta del «cattivo» di turno. Christian Thielemann sigla un primo preludio monumentale e religioso, firmando un Lohengrin meno passionale, all’insegna della classicità.
L’altro evento che caratterizza il festival è la ripresa di Die Walküre con la novità della direzione musicale affidata a Placido Domingo, che quasi vent’anni fa è stato Siegmund sul palcoscenico del Festspielhaus. È un’occasione per ritrovare uno splendido tassello della produzione del Ring di Castorf, che non finisce mai di affascinare. Il resto è noto: Domingo è stato buato alla «prima», Bayreuth non concilia.