Il compleanno di Martha Argerich che il 5 giugno festeggia gli 80 anni ci induce a considerare l’apporto che la grande artista ha dato alla nostra regione. Dal 2002 al 2016, sull’arco di 16 anni si è articolato il Progetto a lei intitolato, garantendo la sua presenza regolare a Lugano che nel 2010 le ha attribuito la cittadinanza onoraria. Sostenuto dalla Banca BSI e dalla Rete Due della RSI, esso fu ideato dal compianto Jürg Grand (produttore della EMI, la casa discografica che fu impegnata annualmente a diffonderne una sintesi attraverso i CD) e coordinato dallo scrivente.
Tale rassegna ha permesso alla grande artista di dar vita nella nostra città, durante il mese di giugno, a una comunità d’intenti, di riunire intorno a sé artisti di varia provenienza, di diversa esperienza, di fama o meno, ma tutti animati dallo spirito del far musica in una sorta di cenobio, di coltivare la propria sensibilità attraverso un repertorio che spesso rivela facce nascoste di grandi compositori e qualità insospettabili fra i minori.
Vi ha dominato la musica da camera, ma anche il confronto fra solista e orchestra, cioè i momenti dell’incontro collettivo che Martha Argerich vive come motivazione del far musica.
Martha Argerich è sulla scena da molti decenni, dopo essere approdata alla consacrazione a soli diciassette anni. La seduzione della sua arte interpretativa, identificata nella musicalità allo stato puro, nella libertà d’intuizione che fa scattare a sorpresa soluzioni ogni volta originali, spesso nell’illusione della spontaneità improvvisatoria, ha fatto parlare nel suo caso di concertismo allo stato adolescenziale.
Completa e matura, quasi senza possibilità d’invecchiare, questa è la condizione che ha caratterizzato e ancora caratterizza il suo far musica, che tuttavia non l’ha mai indotta a cullarsi sugli allori o ad abbandonarsi ad atteggiamenti manierati. Essendo il vitalismo quasi selvaggio il fuoco che alimenta la sua motivazione, Martha Argerich rimane un’artista inquieta, lanciata verso il nuovo, attirata da esperienze sempre diverse, ma nel contempo ancorate a un modo diretto, concreto, militante del fare musica. Non stupisce allora che a un certo punto abbia eletto la musica da camera a luogo privilegiato di contatto con il pubblico e soprattutto con gli altri interpreti associati.
Diversamente dal concerto sinfonico e dal recital, dove la corrente è prevalentemente a senso unico tra palco e platea, il concerto cameristico stabilisce una reciprocità di reazioni a partire dalla necessità di costruire un’intesa in duo, in trio, in quartetto e in tutte le altre possibili combinazioni. Ecco allora che un’artista indomita qual è Martha Argerich vive come sfida tale condizione, in cui la forza eruttiva della sua pronuncia è chiamata a tener conto della disciplina, dell’equilibrio da costruire in modo comunitario con altre personalità spesso di tutt’altra natura, le quali a loro volta da quegli infuocati tratti sono indotti a rispondere per le rime.
Il principio della parità tra le parti dialoganti affermato nella musica da camera è una regola che fa appello agli interpreti impegnati in una vera e propria concertazione, non per spiccare nel modo prevaricante a cui facilmente vengono indotti nel rapporto con l’orchestra, ma per stimolarsi a vicenda nella dialettica di quella «conversazione tra quattro persone ragionevoli», secondo la definizione data da Goethe al quartetto per archi. In quel contesto che fa capo ad Haydn – in «quel genere di musica, in cui non entra l’umana voce, ma di soli strumenti è composta» – significativamente Giuseppe Carpani nel 1812 registrava il passaggio della musica dalla «monarchia» («sovrano il canto, sudditi gli accompagnamenti») alla moderna costituzione di «repubblica di diversi suoni e insieme uniti, nella quale ogni strumento ha diritto di figurare e figura».
Nel segno di tale ideale democratico Martha Argerich ha incentrato sulla musica d’assieme un progetto che ha coinvolto via via una nutrita schiera d’artisti, dove al nucleo originale confermato da un’edizione all’altra si sono aggiunti i nuovi arrivati a consolidarne il profilo di squadra arricchita dalle loro forti identità.
Nella sua ormai lunga carriera Martha Argerich ha percorso tutto il repertorio per la tastiera, distribuito su tre secoli. Il pianismo dell’Ottocento vi occupa pour cause una gran parte, soprattutto con Schumann il cui Concerto in la minore è diventato uno dei suoi cavalli di battaglia (Schumann «l’amico dell’anima» come l’ha definito, «espressione della spontaneità e della purezza, capace di toccarmi profondamente al punto da farmi venire le lacrime agli occhi»).
Ma se dobbiamo definire nel profondo l’arte interpretativa della grande pianista argentina, alla ricerca di ciò che la distingue dagli altri grandi pianisti, non è a questa dimensione «femminile» che dobbiamo rifarci, ma al suo piglio virilmente possente: «Suona come un uomo? No, suona come una Argerich!» – si sente ancora dire spesso. È l’elemento che si rivela nelle sue interpretazioni dei compositori del Novecento che hanno preso le distanze dal passato romantico, attraverso i quali si è affermata come personalità che incarna la modernità.
Per rendersene conto basta riascoltare le sue esecuzioni del Concerto in sol di Ravel, nell’astrazione del secondo movimento e nello slancio macchinistico del terzo, o dei concerti di Prokof’ev nelle quali lo slancio è certamente derivato dal virtuosismo maturato nella lettura di Liszt, ma brilla per una vorticosa concretezza di suono in assonanza con la dimensione «tecnica» e metropolitana del Novecento. Allo stesso modo il suo Liszt, pur rivelando il possesso delle necessarie risorse per restituire la dimensione evocativa della musica romantica, è sempre tenuto sotto un controllo rigorosamente vincolato al senso moderno della plasticità del suono, che nulla concede alle facili e manierate divagazioni. È l’impostazione che la guida nell’interpretazione di Mozart e soprattutto del primo Beethoven, letti in una trasparenza di suono luccicante e in un equilibrio in cui la ragione prevale sul sentimento.