Magico Mehldau

Splendido concerto in chiusura del festival di Chiasso
/ 19.03.2018
di Alessandro Zanoli

In un recensione a concerto tenuto nel 2003 da Brad Mehldau con il suo «storico» trio al Cittadella di Lugano, ci era capitato di annotare come la strabiliante preparazione tecnica del pianista lo facesse somigliare in tutto e per tutto a un computer. Perfetto e implacabile, preciso come un sequenzer elettronico, il pianista americano continua a stupire il pubblico con una capacità musicale che pare sovrumana. «È il secondo più bravo al mondo» commentava parlando con gli amici un signore seduto vicino a noi, nei posti in balconata del Teatro di Chiasso, due domeniche fa. 

Stilare classifiche, in questi casi, è un gioco difficile. Anche perché onestamente non abbiamo capito chi fosse il primo (Keith Jarret? Herbie Hancock? Chic Corea? Hiromi? Fred Hersch?). Senza dubbio Mehldau, con la sua algida e classicissima compostezza non somiglia a nessuno di loro. Non è paragonabile. La metafora informatica per descrivere lo stile che lo caratterizza non è azzardata. Il pianista sembra possedere una capacità razionalissima e selettiva di ordinare nella sua testa nientemeno del repertorio musicale «globale», da Bach ai Nirvana e oltre. 

Ciò gli permette di contare su un repertorio sterminato su cui interviene «per distillazione». Come se scegliesse di ogni brano un certo numero di note che gli interessano e se le palleggiasse tra le mani, ora sul registro alto della tastiera ora su quello medio e basso, in un alternanza di virtuosismo indiscutibile ma non funambolico. Il senso della misura (implacabile) gli impedisce fughe precipitose sui tasti. L’interpretazione di Mehldau è riflessiva e intensa, non vorticosa. Insistente, a tratti, quando esplora le possibilità armoniche di un arpeggio ripetuto all’infinito a centro tastiera, mentre con l’altra mano punteggia con note «ben scelte» dalla melodia la sua improvvisazione. 

Non che il suo rimanga un lavoro astratto. Quando attacca a swingare Mehldau è irrefrenabile, da far rizzare i capelli. Ma il ragazzo sembra proprio che lo voglia evitare: rimane più attento alla selezione verticale delle note che a quella orizzontale del fraseggio.  

Detto questo, il piacere del suo concerto sta tutto nella riconoscibilità dei temi: cosa che gli guadagna non poca gratitudine da parte degli appassionati. Quando suona Misty, Lover man, The song is you, si riconoscono senza problemi. In questo, il suo gioco è classicamente jazzistico, pura prassi esecutiva, da Fats Waller in poi. Noi strabiliamo e ci emozioniamo però quando Mehldau attacca senza avvertirci In a Gadda da Vida degli Iron Butterfly, o, meraviglia delle meraviglie, Hey Joe di Jimi Hendrix. Solo lui può farlo, solo lui lo fa. Allora perché soltanto «il secondo»?