L’uomo che visse tre volte

Personaggi - Hans Ruesch ha attraversato il XX secolo sotto spoglie diverse, sempre determinato ad andare fino in fondo
/ 09.01.2023
di Benedicta Froelich

A volte, imprevedibili esperienze di vita conducono una persona a intraprendere un percorso completamente diverso da quello seguito fino a quel momento. Succede, allora, che mutando la traiettoria della propria esistenza, di riflesso, nell’arco del percorso terreno, cambi anche il modo in cui una persona tocca e influenza gli altri.

Il caso di Hans Ruesch, individuo pressoché impossibile da classificare o incasellare, è un esempio magistrale di come sia possibile reinventarsi sulla base di convinzioni profonde e sincere per «fare la differenza». Bell’uomo dalla mascella volitiva e lo sguardo determinato, Ruesch aveva infatti tutte le qualità dell’avventuriero – un personaggio quasi da romanzo, destinato a sicura popolarità; eppure, oltre la facciata dell’affascinante poliglotta e cosmopolita «cittadino del mondo», Hans celava ben altro, come dimostrato dalla rocambolesca parabola che la sua vita avrebbe finito per seguire.

Nato nel 1913 a Napoli da padre svizzero e madre italiana, Ruesch trascorse l’infanzia in una bella villa sul Golfo, rispondendo al nome di «Giovanni» fino al momento in cui non si trasferì a Zurigo per studiare, divenendo per tutti Hans. Parallelamente al cambio d’identità, sarebbe giunto il primo momento di svolta nella vita del giovane Ruesch: passato dalla facoltà di giurisprudenza a quella di giornalismo e poi di medicina, trascurò gli studi per effettuare lunghi viaggi in Africa e, al ritorno in Svizzera, sviluppò una prevaricante passione per le automobili da corsa, inanellando una serie di impressionanti risultati nelle più svariate competizioni internazionali. In poco tempo, sarebbe divenuto uno dei principali piloti confederati, passando dalle scuderie MG – il suo primo ingaggio – a quelle Alfa Romeo e Ferrari, e vincendo una gara dietro l’altra (ben 27 solo nel decennio degli anni ’30, tra cui l’ambito Gran Premio d’Inghilterra del ’36).

La fama raggiunta all’interno del circuito internazionale sembrava però non bastare al giovane e irrequieto Ruesch che aveva altre ambizioni: dopo aver firmato nel 1953 Il numero uno (romanzo incentrato proprio sul mondo delle corse automobilistiche e da poco ristampato dalla Fucina Editore di Milano), progettò di dedicarsi a tempo pieno alla letteratura; ispirandosi anche a esperienze personali, firmò così diversi romanzi d’avventura (da lui stesso in seguito tradotti in italiano), che presto resero il suo nome noto al pubblico mondiale. Del resto, aveva mosso i primi passi in questo mondo già nel 1950 con la sua opera prima, Paese dalle ombre lunghe, ripubblicato da Einaudi nel 2021.

Hans fu fortunato: entrambi questi romanzi vennero opzionati da Hollywood, divenendo film d’autore interpretati da attori del calibro di Kirk Douglas e Anthony Quinn – poi seguiti, nel 2011, da un’altra opera dalle tematiche intense quale Il principe del deserto, di Jean-Jacques Annaud (tratto da Paese dalle ombre corte, sull’effetto deleterio che lo sfruttamento esercitato dalle compagnie petrolifere occidentali ebbe sulle tribù arabe dei primi del Novecento).

Eppure, nonostante le innegabili soddisfazioni professionali, la storia di Hans stava per cambiare radicalmente, in modo inaspettato e non poco traumatico: rientrato in Italia nel ’46 (durante la guerra aveva abbandonato l’Europa per gli Stati Uniti), Ruesch rimase coinvolto in un grave incidente d’auto, nel quale un carabiniere perse la vita. Sconvolto dall’accaduto, abbandonò le corse automobilistiche: e fu proprio questa scelta a preparare il terreno affinché una nuova, grande passione – in realtà, una missione – dominasse la sua vita.

Poiché il relativo flop di Ombre Bianche (1960), visionaria versione cinematografica del suo romanzo d’esordio, sembrava avergli fatto perdere lo sfuggente status di bestsellerista, Hans aveva deciso di accontentarsi di lavori più umili – come quello di editor per una collana medica italiana. E fu proprio durante le ricerche intraprese in quest’ambito che si rese conto della portata di quella che avrebbe definito come «la grande frode della vivisezione»: ovvero, l’eliminazione sistematica di milioni di cavie da laboratorio, sacrificate ogni anno sull’altare della medicina senza che nessun reale vantaggio ne derivasse. Ruesch fu infatti uno dei primi ad affermare che la sperimentazione sugli animali fosse da considerarsi ingiustificabile sia da un punto di vista etico sia scientifico, principalmente per il fatto che l’organismo di qualsiasi cavia da laboratorio è diverso a tal punto dal nostro che i test condotti su animali non possono in alcun modo rispecchiare le possibili reazioni dei soggetti umani.

Dagli anni ’70 in poi, Hans divenne il maggiore paladino dell’opposizione europea alla vivisezione e una vera e propria spina nel fianco per le aziende farmaceutiche: fondatore, nel ’74, del Centro Informazioni Vivisezionistiche Internazionali Scientifiche (CIVIS, con sede a Zurigo), pubblicò diversi lavori sull’argomento, di cui il più celebre e controverso, Imperatrice nuda (ritirato dall’editore Rizzoli poco dopo la pubblicazione, nel ’76) costituisce tuttora una vera «bibbia» per le associazioni formatesi nel mondo nel tentativo di porre fine a una pratica ritenuta inumana.

E certo si può dire che quando, nel 2007, il 94enne Hans Ruesch morì nella propria casa di Massagno, il suo più grande lascito sia stato proprio la lunga militanza nel movimento contro la sperimentazione animale e l’influenza che il suo lavoro ha avuto sull’opinione pubblica: un lascito pagato a caro prezzo, dato che Ruesch venne trascinato più volte in tribunale a causa delle proprie affermazioni e convinzioni. Eppure, questo era ciò che egli stesso aveva voluto: una volta abbracciata la causa, nulla di tutto ciò che aveva fatto parte della sua vita precedente (né la carriera letteraria, né, tantomeno, gli spericolati exploit da pilota) rivestì più per lui la minima importanza. Il che, in fondo, resta prova ultima e definitiva tanto della sua abnegazione quanto della sua onestà morale e intellettuale.