Nata a Basilea nel 1949 in una famiglia ebraica fuggita dalla Germania e dalla Francia durante le persecuzioni naziste, Miriam Cahn è sempre stata un elettrone libero. Ancora studentessa alla Gewerbeschule di Basilea, la giovane artista integra i movimenti femministi e antinucleari dell’epoca. Militante, indomita e libera da ogni condizionamento eteropatriarcale, Mirian Cahn ha sempre voluto imporre, attraverso l’arte, la propria visione del mondo, la propria luminosa alterità. Il suo universo artistico, luogo di resistenza individuale e di dissidenza sociale, le permette di lottare contro le ingiustizie e i conflitti della sua epoca. Le umiliazioni e le violenze subite da quelli che il mondo chiama «anormali», vittime di una smania di dominio che si trasforma in sadica ossessione, sono sublimate nelle sue opere attraverso un rituale catartico di cui è la sacerdotessa.
Che si tratti della Guerra del Golfo, di quella dei Balcani, della primavera araba, della crisi europea dei migranti, del recente conflitto in Ucraina, delle violenze sessiste o dello stupro come arma di guerra, Miriam Cahn esprime da più di trent’anni, attraverso l’arte, il suo violento dissenso. Sì perché diciamolo subito, Cahn è un’artista arrabbiata e lo rivendica! «Sono arrabbiata perché tutto è così lento, perché le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini. Non si tratta di aggressività ma di rabbia e la rabbia è un ottimo motore per l’arte», afferma in un breve video prodotto da Art Basel ricordandoci che la lotta deve continuare. Fervente difensore dei diritti delle minoranze, Cahn sfida e distrugge i grotteschi stereotipi legati alle artiste «donne» o meglio, alla categoria «donne» in generale. La violenza, così come il genere, sono dei costrutti sociali che ci fanno credere che tutto sia deciso per noi dalla nascita, che trasforma le «donne» in vittime inconsapevoli di un controllo sociale che tendiamo pericolosamente a sottovalutare. Con le sue opere, Cahn ci obbliga a confrontarci con queste imposizioni silenziose, ci fa capire che la rabbia e il dissenso non sono l’appannaggio dei così detti «uomini» ma fanno parte di ognuno di noi, sono la linfa vitale che ci permette di continuare a lottare. Non è un caso se una delle opere esposte al Palais de Tokyo, mecca dell’arte contemporanea parigina che dedica a Cahn un’immensa retrospettiva intitolata Ma pensée sensorielle, ha creato scandalo. La violenza, la rabbia e il dissenso sono infatti caratteristiche che la società eteropatriarcale rifiuta di associare alle «donne», rinchiudendole in una prigione dorata fatta di vulnerabilità e fragilità. Cahn si rifiuta di giocare il gioco della vittima affrontando, con la sua arte, tematiche scottanti quali la guerra o le violenze di genere e sessuali che fanno paura perché ci confrontano con le contraddizioni e le ingiustizie di un mondo del quale facciamo inevitabilmente parte.
«L’arte dovrebbe essere libera dalle costrizioni sociali, dal politicamente corretto» afferma l’artista svizzera, mettendoci in guardia sul fatto che la censura o l’autocensura possono in ogni istante prendere il sopravvento soffocando una libertà di espressione che dovrebbe essere garantita a prescindere. Il quadro incriminato, intitolato Fuck Abstraction, considerato dalla deputata RN Caroline Parmentier pedopornografico e difeso a spada tratta dallo spazio d’arte parigino così come dalla ministra della cultura Rima Abdul Malak, rappresenta una figura esile e apparentemente indifesa costretta a sottomettersi a degli atti sessuali imposti da un’imponente figura autoritaria che le sta di fronte. Malgrado l’opera in questione sia esposta in una sala appartata del Palais de Tokyo, all’entrata della quale è esposto un cartello che mette in guardia sui temi sensibili trattati, la violenza della scena ha scatenato vive polemiche.
A questo punto possiamo legittimamente domandarci se ciò non sia dovuto in gran parte al fatto che questa stessa violenza sia espressa proprio da un’artista donna. Cahn rivendica il suo diritto all’indignazione, all’espressione plastica di un dissenso che da intimo diventa collettivo e quindi politico. In realtà, non è l’opera a essere violenta ma il quotidiano vissuto dai soldati e dai civili in periodo di guerra, le tragedie individuali che testimoniano l’assurdità di conflitti che nascono da interessi ben più grandi di noi. Miriam Cahn, una delle artiste più importanti della sua generazione, riesce ancora a scioccare, a smuovere le coscienze e questo di per sé è già un grande traguardo. «L’arte deve mostrare la complessità di tutto: il sesso, il potere, le aggressioni, la violenza. Bisogna combattere, essere combattivi e io lo sono!» afferma con la determinazione che non l’ha mai abbandonata malgrado le critiche e l’ostilità di una fetta della società che vorrebbe con tutte le sue forze farla tacere godendo dei suoi rassicuranti privilegi.
Attorniata dalle montagne, nel suo atelier di Stampa, in Val Bregaglia, Miriam Cahn continua a lottare attraverso le sue opere al contempo poetiche e radicali. L’umanità, così come la natura, sono rappresentate in tutta la loro splendente fragilità, base e linfa vitale di un universo estetico popolato da presenze indistinte, fantomatiche, piante ibride, animali, visi androgini incorniciati da intensi aloni ectoplasmatici o ancora da corpi deformati dal peso di una vita che non li ha risparmiati. Tutte le scene rappresentate da Cahn sono misteriose, tinte da allusioni sessuali, da rivendicazioni femministe ma anche da un’intensa carica di violenza e rigetto. Intrise di un misticismo legato alla natura che le circonda, liberate da ragionamenti troppo pragmatici e razionali, le sue opere sono istintive e visionarie, basate sull’emotività e la libertà di un corpo che rivendica il diritto a esistere e a esprimersi. Nulla è semplicemente decorativo o superficiale nell’universo di Cahn, tutto è complesso e radicale, proprio come la condizione umana.