Quand’è che un poeta diviene poeta? Quand’è che può dirsi matura una scrittura, per poter affermare che una certa parola non ha più solo il senso di quella, ma anche di tante altre che le risuonano dentro? Ebbene, nella poesia di Emily Dickinson e nel suo ultimo libro pubblicato da Einaudi (p.p.740) dal titolo Poesie, curato e tradotto magistralmente dalla poetessa Silvia Bre e contenente 350 liriche, questa domanda sorge spontanea ma al tempo è destinata a rimanere tale, non avere risposta adeguata. Poiché se è certo che l’esperienza talvolta affina lo stile, è pur vero che certi rari talenti, hanno fin da subito nel loro sentire, nitide, quelle visioni fatidiche che muoveranno la loro arte, ben prima e oltre il perfezionarsi dello strumento linguistico.
Già preadolescente, Dickinson era una collettrice immensa d’immagini e sensazioni
Tutto in Emily era già visione, nitidissima raffigurazione, molto prima che essa si materializzasse in scrittura e proprio leggendola per paradosso ce ne rendiamo conto: «Misuro ogni dolore che incontro/con sguardo minuzioso, inquisitore-/mi chiedo se pesa quanto il mio-/o è un carico più lieve-//Mi chiedo se lo portano da tanto-/…/l’età del mio non saprei dire-/ sembra antica la pena-//…». Già preadolescente, Dickinson era una collettrice immensa d’immagini e sensazioni. Bambina proveniente da una famiglia borghese di Amherst nel Massachusetts, dove la Bibbia anglicana era pietra angolare della società, visse in territori vasti e selvaggi, storicamente toccati dal passaggio del sogno americano verso l’Ovest. Da una parte la scrittrice quindi si sentiva dentro il flusso di quei grandi rivolgimenti che stavano cambiando l’America, dall’altra, il suo sguardo era sempre partecipe alle cose della comunità. E proprio su questo variegato paesaggio antropologico, si innestò poi la sua lingua che riprese anche il modo di comunicare già presente in quei territori, asciutto e al tempo stesso espressivissimo, che potremmo definire, come ben dice Franco Buffoni, in un bellissimo scritto dedicato allo poetessa, laconica.
Forse la poesia di Dickinson, vuole strattonarci verso questa consapevolezza estrema: di quanto fondante sia l’attimo, l’unico che davvero possediamo
Certo la lezione del libro della Bibbia e dei classici come Shakespeare, è grande; difatti le liriche toccano ossessivamente quelli che potremmo definire i temi essenziali quali il passare del tempo individuale dentro quello più vasto, la voce naturale scandita nei tanti modi in cui essa può manifestarsi, ed ancora quella divina che entra nel tempo a volte trafelata, tal’altra così chiara: «Il cielo è così tutto della mente/che fosse la mente dissolta-/la sua -sede-nessun architetto/saprebbe dimostrare un’altra volta-// È vasto come la capacità nostra-/bello – come la nostra idea-/Per chi ne abbia adeguato desiderio/non è lontano, è qua-». E ancora l’esaltazione delle relazioni umane, costituenti l’unica vera ricchezza di ognuno. Ma dietro questo affiorare eterogeneo delle cose del mondo, nei passi cadenzati del verso, quasi solenni, sembra nascondersi il passaggio dei passaggi, cui Dickinson sempre ritorna: l’attimo dell’andarsene del soffio vitale. Ecco, Emily è stata la maestra di quel momento, ha saputo rendere con parole inimmaginabili, la trasformazione di un corpo, dei suoi sogni, in vuoto involucro, che però proprio in quella vuotezza, sembra parlare più fortemente di una certa metafisica che avvolge tutta la sua immobilità: «…/Ricordò qualcosa, e si dimenticò – Poi lieve come una canna/riversa sull’acqua, rabbrividì appena-/acconsentì, e fu morta-//E noi – noi sistemammo i capelli-/e rimettemmo la testa eretta-/e poi una quiete orrenda dovette/calibrare la fede-/».
Ecco il corpo diviene preghiera muta, ricordando ad ognuno la sua ontologica fragilità. Forse la poesia di Dickinson, vuole strattonarci verso questa consapevolezza estrema: di quanto fondante sia l’attimo, l’unico che davvero possediamo e di quanto sia importante gloriarlo ed intenderlo davvero. Solo in esso l’umano continuamente si compie, ed è capace di immaginarsi in profondità abissali, solo in esso, sembra suggerirci la poeta, dobbiamo aver cura continuamente di rifondare la nostra libertà di pensiero, la nostra critica sul mondo, la nostra libertà nel mondo. Emily seppe davvero cogliere le più recondite ombre negli occhi dei suoi simili, riuscendo sempre a risalire all’intima storia, con l’estrema pennellata linguistica. Descrisse con verità, crudezza mai, i tanti baratri della psiche ma seppe egualmente commuoversi, per la ricchezza che ogni essere era capace di trasmettere.
E come ci fa intendere in introduzione del libro Sara De Simone, tutto nella formazione di Dickinson, fu complice al rialzo per la sua scrittura, sempre ben lontana da quelle stanze ammaestrate, ammansite, asettiche dove la vulgata più spiccia vorrebbe far credere esser nata e sviluppata. Perché come retrocedendo nei suoi giovanissimi occhi, avidi di nature, spazi, relazioni, del fuori in una parola, correvano già le 1775 brevi liriche, che sarebbero venute un giorno poi a visitarla in scrittura: «Se potessi scordare quanto fui felice/rammentare quanto son triste/sarebbe una sventura lieve/ma il ricordo della fioritura//rende sempre difficile il novembre/e io che ero quasi audace/perdo la strada come una bambina/e per il freddo soccombo/».